In sede di conversione del Decreto semplificazioni è stata introdotta una norma, apparentemente di portata modesta, ma che può contribuire ad affrontare e risolvere, invece, una questione importante a cui il legislatore gira attorno fin dall’entrata in vigore della Costituzione, senza venirne a capo: quali contratti collettivi possono essere applicati a tutti i lavoratori e non solo agli iscritti delle associazioni stipulanti.
L’articolo 39 Cost. prevede delle regole (i requisiti per riconoscere la personalità giuridica delle organizzazioni sindacali, le condizioni e le modalità per stipulare contratti collettivi con efficacia erga omnes per tutti gli appartenenti alla categoria a cui il contratto si riferisce), che non sono mai state attuate con la prevista legge ordinaria, tanto da divenire – a giudizio di chi scrive, ma non solo – inapplicabili, perché durante questi decenni di vuoto legislativo (nel senso indicato dalla Costituzione), l’ordinamento sindacale ha preso un’altra strada assumendo, con alcune varianti, il criterio-guida nella maggiore rappresentatività delle organizzazioni stipulanti. In sostanza, attribuendo a una situazione di fatto, derivante dal reciproco riconoscimento tra le organizzazioni datoriali e quelle dei lavoratori, un rilievo di valore giuridico. Tanto che una giurisprudenza a lungo consolidata ha sempre sancito che la “retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, che dispone l’art.36 Cost., corrispondesse alla retribuzione stabilita dai contratti collettivi sottoscritti dalle parti sociali storiche.
Il referendum del 1995 ha destabilizzato questo assetto, modificando l’articolo 19 dello Statuto nel senso di riconoscere un diritto di rappresentanza solo alle organizzazioni stipulanti dei contratti applicati in azienda. Va sottolineato, a questo proposito, un dato fattuale. Quando si costruisce un ordinamento giuridico su di una situazione reale esistente in una determinata fase storica, tale ordinamento non è in grado di reggere a una trasformazione molto profonda di quella stessa situazione. In parole povere, quando Confindustria e Cgil, Cisl e Uil erano soggetti egemoni, anche la loro attività contrattuale non veniva messa in discussione da nessuno. Quando tale egemonia ha iniziato a traballare (nei fatti e quindi anche in diritto) sono scesi in campo altri protagonisti, disposti a farsi spazio attraverso pratiche di dumping sociale, al riparo di un principio: il contratto collettivo privato è regolato dal diritto comune ed è quindi valido solo per gli iscritti alle associazioni stipulanti. Verrebbe da dire che, anche nel diritto sindacale, “uno vale uno”.
È emerso il fenomeno dei c.d. contratti pirata che ha gonfiato il numero dei contratti collettivi che, in pochi anni secondo il Cnel, sono passati da meno di 400 a 868. In questi ultimi tempi, prima che il Covid-19 sgombrasse il campo da altri problemi all’ordine del giorno, il Parlamento stava valutando la percorribilità di una scorciatoia: l’introduzione per legge ordinaria di un collegamento tra quanto previsto nell’articolo 36 Cost. e quanto disposto dai contratti stipulati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative (una formulazione di nuovo conio). Poiché era all’esame anche l’ipotesi di un salario orario minimo legale, sarebbe bastato mettere tutto insieme in un mazzo: i contratti stipulati dai sindacati storici diventavano l’alfa e l’omega delle relazioni industriale e della legislazione del lavoro. Su di una impostazione siffatta c’erano dubbi di legittimità costituzionale, nel senso che veniva eluso il percorso previsto dall’art. 39.
Alcuni mesi or sono, il Cnel (che dispone dell’iniziativa legislativa) aveva proposto un ddl che, in via amministrativa, avrebbe potuto individuare quali contratti collettivi venivano applicati nelle aziende e valutarne la congruità. Vediamo la norma che ha recepito questa proposta nel Decreto semplificazioni, riportando di seguito il testo:
Articolo 16-quater. (Codice alfanumerico unico dei contratti collettivi nazionali di lavoro)
1. Nelle comunicazioni obbligatorie previste dalle disposizioni di cui all’articolo 6 del decreto legislativo 19 dicembre 2002, n. 297, e nelle trasmissioni mensili di cui all’articolo 44, comma 9, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, il dato relativo al contratto collettivo nazionale di lavoro è indicato mediante un codice alfanumerico, unico per tutte le amministrazioni interessate. Tale codice viene attribuito dal Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel) in sede di acquisizione del contratto collettivo nell’archivio di cui all’articolo 17 della legge 30 dicembre 1986, n. 936. La composizione del codice è definita secondo criteri stabiliti dal Cnel d’intesa con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e l’Istituto nazionale della previdenza sociale.
Il presidente del Cnel Tiziano Treu non ha perso tempo: “Esprimo soddisfazione – ha dichiarato – per l’approvazione della legge di conversione del Decreto semplificazioni che istituisce il codice univoco alfanumerico per i contratti collettivi nazionali di lavoro assegnandone l’attribuzione al Cnel, attuale sede dell’Archivio nazionale dei contratti. Il Parlamento ha recepito lo spirito di uno dei primi disegni di legge presentati dal Cnel”, il quale “definirà, d’intesa con il Ministero del lavoro e l’Inps, i criteri per l’attribuzione del codice. La collaborazione istituzionale che ne deriverà – ha proseguito il Presidente – ci permetterà di mettere a sistema le informazioni in possesso delle amministrazioni coinvolte per costituire il primo nucleo di un’anagrafe comune dei contratti collettivi organizzata in un’ottica di servizio pubblico. È un’operazione che renderà trasparente l’effettiva applicazione dei contratti”. “Finalmente – ha concluso Treu – risponderemo all’esigenza di individuare parametri utili a identificare quale o quali contratti collettivi di lavoro possano essere considerati il riferimento all’interno di un medesimo settore, ad esempio a fini giudiziali, e costituire un benchmark utile a tracciare la linea di demarcazione fra pluralismo contrattuale e pratica sleale”.
La dichiarazione di Treu spiega puntualmente una procedura complessa. A ulteriore chiarimento, la procedura prevede che a ogni contratto collettivo nazionale, depositato (come prescrive la legge) presso l’Archivio del Cnel, venga attribuito un codice alfanumerico che deve essere riportato sui documenti che i datori sono obbligati a inserire nelle comunicazioni mensili (al Ministero e all’Inps, per esempio) riguardanti i propri dipendenti. In questo modo si potrà completare l’Archivio della Contrattazione presso il Cnel con una mappatura puntuale dei contratti applicati. È un primo passo che ha bisogno di ulteriori iniziative di completamento. Ma è pur sempre un passo concreto, perché la conoscenza dei problemi è la condizione prioritaria per la loro soluzione.