Lesbo, isola incantata dell’antica mitologia greca, a pochissimi chilometri dalle coste della Turchia, da anni è un immenso campo di raccolta di profughi che, come racconta Daniele Bordoli, responsabile volontari Progetto Arca, appena tornato proprio da Lesbo, “provengono in maggior parte da Siria e Afghanistan, ma anche da Somalia e Africa sub-sahariana. Prima dell’emergenza Covid, il picco di persone qui raccolte arrivava a 21mila profughi su una popolazione di 80mila”. Anche papa Francesco anni fa si è recato a vistare queste persone, che fino alla settimana scorsa vivevano ammassate in un campo di 13mila persone circa, quello di Moria, dato alle fiamme. “Il fatto che non ci siano stati né morti né feriti – spiega Bordoli – e che sia stata possibile la fuga di così tante persone fa pensare si sia trattato di un incendio doloso, appiccato, sembra, da profughi afghani, per smuovere le acque e accelerare la possibilità di poter lasciare l’isola e andare in Europa. A Lesbo l’attesa dei permessi può durare anche due anni e mezzo, tre”.
Daniele e altri volontari dell’Arca si sono diretti a Lesbo immediatamente, 48 ore dopo l’incendio, portando aiuti e soprattutto impegnandosi nella costruzione del nuovo campo: “Ci sono attualmente 10mila persone in mezzo alla strada, bloccate dalla polizia. Ci siamo occupati di portare la colazione al mattino ai bambini. Vedere quei volti gioiosi ti cambia ogni prospettiva che hai”.
È stata la prima volta che ti sei recato a Lesbo?
Per i progetti Arca sono andato molte volte all’estero, ma mai in Europa e mai, come in questo caso, per una emergenza immediata. Ci siamo appoggiati a un’altra organizzazione più strutturata, che lavora a Lesbo da tempo.
Vi siete mossi quando ancora il campo profughi bruciava. Cosa avete portato?
Ci siamo mossi con tempestività nel giro di 48 ore dopo l’incendio. Abbiamo portato lo stretto indispensabile, perché organizzandoci in poco tempo non potevamo fare chissà cosa: mascherine, gel, guanti e tre gazebo, che si sono rivelati molto utili. Abbiamo dato una mano a sistemare il nuovo campo, era difficile capire cosa fosse utile e necessario. Adesso sta partendo un camion con 15 tende, coperte termiche, altre mascherine; poi partirà un container con coperte per bambini.
A Lesbo si contano molti casi di Covid?
Il campo bruciato era in quarantena, c’erano 35 casi. Ora per entrare nel nuovo campo si faranno i tamponi a tutti, ci sono 25 persone in una zona delimitata.
Come si presenta la situazione in attesa che il nuovo campo sia pronto?
Dopo l’incendio circa mille persone sono rimaste per strada, all’esterno del vecchio campo. Noi andavamo alla mattina a portare la colazione ai bambini. Altre 10mila persone si sono dirette verso la città, ma sono state bloccate dalla polizia, per cui sono tutti per strada in un lembo racchiuso. Il nuovo campo è in costante allestimento: all’inizio c’erano 200 persone, poi 500, poi 800 e ieri quasi mille.
L’isola di Lesbo, per quanto ne sappiamo, è una sorta di campo di concentramento con numeri altissimi di profughi. Da dove arrivano, da Turchia e Siria?
La rotta è quella, e principalmente si tratta di siriani e afghani, ma come provenienza ci sono molti somali e anche profughi dall’Africa sub-sahariana. Sono tutti lì in attesa, da lungo tempo, di ottenere il permesso per entrare in Europa.
In Italia, nei centri di accoglienza, quando i flussi erano alti, per esaminare una richiesta si aspettavano due anni…
In Grecia l’attesa è di due anni e mezzo, anche tre. C’erano 13mila persone prima dell’emergenza Covid, ma si è arrivati a picchi di 21mila persone. In realtà, per tornare alla sua domanda, Lesbo non è un campo di concentramento: alle persone era permesso uscire per andare in giro.
Le autorità dicono che l’incendio sia stato appiccato da alcuni afghani che sono stati arrestati, compresi due minori senza accompagnamento. Conferma?
Non lo so chi ha appiccato l’incendio. L’obiettivo dell’incendio potrebbe essere stato quello di smuovere le acque per poter andare più velocemente in Europa.
Il governo greco ha detto che entro Pasqua l’isola verrà sgombrata.
Lo spero, ma non lo so. Quando l’attenzione su Lesbo è alta, si propongono idee e buoni propositi, poi ci si dimentica. I cambiamenti al trattato di Dublino, che sono stati annunciati, potrebbero essere già una prima mossa.
Che cosa hai portato a casa da questa esperienza?
Premesso che non ho ancora metabolizzato tutto, perché era la prima volta che partivo per una emergenza immediata, e che a livello personale è stato stancante sotto il profilo fisico ed emotivo, mi porto a casa che qualsiasi aiuto può fare la differenza. Per esempio, la distribuzione del cibo in strada: solo vedere i volti ti segna.
La tua speranza?
Spero che Lesbo possa cambiare, perché oggi la situazione è insostenibile. In passato come Progetto Arca all’estero ho avuto esperienze di cooperazione, non di emergenza. Oggi mi ha fatto rendere conto che per cambiare la situazione sono importanti l’impegno in prima persona e il lavoro di gruppo, il concerto delle varie attività. Se ciascuno fa la sua parte, anche piccola, le cose possono cambiare.
(Paolo Vites)