Per la prima volta da luglio, da quando è stato avviato i sondaggi settimanalI White House Watch, Donald Trump – secondo l’istituto di ricerca Rasmussen – viene dato in vantaggio su Joe Biden, anche se di un solo punto: 47% contro 46% di consensi nell’elettorato americano. In una sola settimana il candidato democratico ha “bruciato” i suoi due punti di vantaggio, mentre il presidente in carica, dopo due mesi e mezzo, è tornato sopra quota 45%. In questi 75 giorni l’America ha assistito alle violente proteste razziali, alle immagini dell’Ovest del paese, dalla California all’Oregon, devastate dagli incendi, alla morsa del Covid che non vuole proprio lasciare la presa, all’economia reale che, seppure in ripresa, resta in sofferenza. Ma dall’altra, ha visto Wall Street continuare a correre di record in record, la storica firma degli “Accordi Abramo” tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, il lungo braccio di ferro con la Cina, le tensioni crescenti con l’Iran. Che cosa, dunque, ha spinto la rincorsa di Trump? Come può reagire Biden? Quali fattori risulteranno decisivi da qui al 3 novembre? Lo abbiamo chiesto a Massimo Gaggi, corrispondente dagli Usa per il Corriere della Sera.
Trump sembra aver scavalcato nei sondaggi Biden: secondo il White House Watch di Rasmussen avrebbe un punto di vantaggio sul rivale. Che cosa ha dato la spinta al presidente in carica?
Intanto bisogna dire che Rasmussen non viene considerato negli Usa il sondaggio più autorevole.
Perché?
Rasmussen, che pure in passato alcune volte ha azzeccato le previsioni, ma in altre ha vistosamente sbagliato, è l’unico a segnalare questo cambiamento di segno, già da qualche giorno. Va ricordato però che le sue rilevazioni si basano su chiamate da telefono fisso, con procedure abbastanza obsolete, e tendono a raccogliere soprattutto persone anziane. Non viene considerato particolarmente affidabile.
Trump però viene dato in recupero, non è così?
Vero, ma la mia impressione è che la gara fra Trump e Biden non abbia cambiato i dati di fondo, come mostrano altri sondaggi, compreso quello di Fox, la tv che pure sostiene al 100% il presidente in carica. Anzi, dopo la convention repubblicana ci si aspettava uno spostamento più robusto, che finora sembra non esserci stato.
In questa fase Biden sta sbagliando più di Trump?
Il vantaggio di Biden si sta assottigliando, anche se mantiene un buon margine in alcuni Stati considerati in bilico. Ma sono dati da prendere con cautela. In molti ambienti degli Stati Uniti, infatti, essere per Trump non è cosa ben accetta, quindi molti americani preferiscono non dire nei sondaggi che voteranno repubblicano.
Economia, proteste sociali, razzismo, questione ambientale, emergenza Covid: quale di questi fattori inciderà di più nell’ultimo mese e mezzo di corsa verso la Casa Bianca?
In misura diversa pesano tutti. In positivo per Trump incidono soprattutto le proteste razziali, perché i disordini spaventano una parte di elettori moderati, che sono un bacino conteso dai due candidati alla Casa Bianca.
E per Biden?
A suo favore gioca la questione Covid: Trump non ha saputo gestire in modo soddisfacente l’emergenza coronavirus, che ha creato un po’ di paura soprattutto nella popolazione anziana, anche tra gli elettori repubblicani.
Trump chiede con insistenza che si arrivi a un vaccino anti-Covid prima delle presidenziali. Che effetti ne ricaverebbe? Se il vaccino non fosse sicuro o sufficientemente testato, potrebbe essere un boomerang, alla luce del fatto che secondo un sondaggio 4 americani su 10 ne farebbero a meno se dovesse essere trovato nel 2020?
Il fatto che la gente si vaccini o meno ha poco a che vedere con l’impatto del vaccino sul voto. La scoperta di un vaccino potrebbe far sì che gli americani tornino con maggiore tranquillità a una vita normale, con effetti positivi anche sul rilancio dell’economia. E per Trump annunciare l’arrivo del vaccino è un modo per dire: dimentichiamoci il passato, ho risolto il problema della pandemia. Il punto vero è che il vaccino non sarà mai sicuro al 100%: se va bene sarà sicuro al 70%, se va male al 50%.
Dopo l’accordo tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein si può dire che il presidente Trump ha fatto breccia nella lobby ebraica?
Trump era già abbastanza popolare prima, visto il legame molto solido con Netanyahu. Al contrario, il rapporto dei Democratici con Israele e una parte dell’elettorato ebraico si era già logorato con Obama, quando aveva deciso di firmare l’accordo sul nucleare con l’Iran. L’intesa tra Israele, Emirati Arabi e Bahrein offre a Trump, che finora non ha ottenuto successi in politica estera – nessun accordo con la Corea del Nord, rapporti pessimi con Cina e Russia – la possibilità di aprire un processo di pace in Medio Oriente, anche se la strada è tortuosa, come dimostrano le reazioni di palestinesi e iraniani.
Gli elettori bianchi dell’America profonda sono stati i grandi sostenitori di Trump nel 2016. In questi quattro anni che cosa ha fatto per loro Trump così da potersi garantire ancora una volta il loro appoggio?
Oggettivamente molto poco, quasi nulla direi. Ma questo non ha importanza: è vero che Trump ha varato una riforma fiscale che è andata a beneficio soprattutto dei benestanti, ha enormemente aumentato il debito pubblico, ha cancellato i benefici dell’Obamacare e anche la promessa di rivitalizzare l’economia interna, con la riapertura delle fabbriche e delle miniere, non è stata realizzata, ma è comunque riuscito a diventare un simbolo degli ultimi d’America, a incarnare la loro voce, a far passare l’immagine di un presidente che si batte contro l’establishment. E questo funziona.
Biden farà fatica a conquistare questo elettorato ed è in difficoltà anche sul fronte del gradimento degli ispanici. Su chi o su cosa può contare lo sfidante?
Essendo una figura abbastanza sbiadita, paradossalmente Biden può contare sul fatto che non suscita l’ostilità che invece suscitava Hillary Clinton, anche all’interno di una parte del mondo democratico, che non amava la sua arroganza. In più non ha l’immagine del radicale di sinistra come Bernie Sanders. La sua forza, dunque, è legata in parte alla debolezza della sua immagine. Comunque anche nell’elettorato bianco ha una sua popolarità, maggiore di quella della Clinton, essendo stato sempre molto vicino ai sindacati. Ed è molto forte in Pennsylvania, che è uno degli Stati decisivi di questa tornata presidenziale, come pure in Michigan, dove ci sono le grandi fabbriche automobilistiche salvate da Obama. Con gli ispanici è oggettivamente in difficoltà, anche perché il Partito Democratico negli ultimi anni li ha trascurati, ma ciò è controbilanciato dai favori che raccoglie presso l’elettorato di colore. Il punto vero però è un altro.
Quale?
L’incognita è quanti andranno effettivamente a votare, in un paese tradizionalmente a bassa affluenza elettorale. La partita si gioca non tanto sugli equilibri fra destra e sinistra, quanto sulla capacità di mobilitare gli americani che in passato non sono andati a votare.
Oltre a Pennsylvania e Michigan, quali altri Stati saranno decisivi? I soliti “swing State”, come l’Ohio, oppure quest’anno ci sono altri osservati speciali da monitorare con attenzione?
Sicuramente la Florida, dove Bloomberg sta investendo 100 milioni di dollari a sostegno della campagna di Biden; l’Arizona, che Trump ha molta paura di perdere; il Wisconsin, che solo un mese fa era dato per sicuro ai Democratici, ma ora è molto difficile che riescano a conquistarlo. Non credo invece che arriveranno grosse novità dal Texas, sebbene si registri una crescita delle etnie che votano democratico. La vera partita si giocherà sui senatori.
In che senso?
Se i Democratici riusciranno ad avere la maggioranza al Senato, oltre che alla Camera, Trump rischia di rimanere con le mani legate. Ci sono molti collegi in bilico e i Repubblicani rischiano di perdere senatori importanti.
(Marco Biscella)