Il momento attuale è segnato dall’incombere degli effetti della pandemia da Covid-19 ed è caratterizzato da grande incertezza, già in parte sottesa al contesto di cambiamento d’epoca. Prevale una sensazione di angoscia dominante e diffusa, figlia della paura, che si cerca di esorcizzare o rimuovendola o proponendo analisi e soluzioni date per certe, in realtà contraddittorie (pensiamo a quanta carica emotiva trasmettono i media insieme con gli inviti a non drammatizzare). Ma dall’incertezza e dall’angoscia occorre pur difendersi, perché ci si sta male. La paura non fa bene alla salute, anche se va accettata. Assumendo la paura e il bisogno di salute come parole chiave, proviamo allora a svolgere alcune considerazioni su tre aspetti di attualità.
Il primo discende dalla considerazione che l’epidemia ha colpito con maggior gravità alcune fasce di popolazione, come le persone anziane e con patologie fisiche multiple, cioè le più vulnerabili. Altrettanto si sono rivelate vulnerabili persone definite fragili perché affette da disturbi psichici o da disabilità gravi. In questi casi determinante è il fattore paura (della malattia, della morte), cioè l’impatto del trauma quasi catastrofico della pandemia sul soggetto, con le misure restrittive che hanno agito come moltiplicatori del disagio e che un effetto simile hanno mostrato su minori e adolescenti, oltre che sulla popolazione povera. Una conferma che la salute è un bene complessivo, che riguarda la persona tutta intera, unita tra corpo e mente e costituita da relazioni sociali. Che contributo può derivare alla clinica da un simile approccio? Sono pensabili nuovi modelli di intervento?
Un altro punto riguarda la cura. Quali novità sulle cure? Il fatto che ci si sia trovati di fronte all’estrema difficoltà a individuare terapie di sicura efficacia e a lottare per la guarigione procedendo per tentativi (ed errori) non ancora validati scientificamente non ha scoraggiato gli operatori sanitari, anzi ne ha esaltato la motivazione professionale non disgiunta da un forte impegno sul piano umano. Il che ha permesso di ri-scoprire il valore della relazione con il malato come costitutiva della cura. Nel contempo sembra che la società sia più consapevole delle relazioni di cura come bisogno universale, essenziale per l’uomo. Alcuni hanno osservato come la comunanza del sentimento dell’angoscia abbia avvicinato invece che distanziare paziente e operatori, i quali hanno colto nell’evento un risvolto di occasione propizia per riformulare il senso del lavoro, ritrovando fiducia nel legame con l’altro, e per modificare la percezione di frustrazione professionale, legata anche alle pressioni esterne. Come a partire da qui si può riplasmare la fisionomia dell’operatore? Quali ricadute sulla formazione del personale curante?
Il terzo elemento ha che fare con i servizi sanitari, dei quali sono emerse nella circostanza le carenze e di cui si avverte l’assoluta necessità per il sistema socio-sanitario. In particolare la discussione verte da una parte sull’organizzazione ospedaliera, dall’emergenza alle terapie intensive, sotto stress dalla caotica fase della esplosione dell’epidemia, fronteggiata con generosa duttilità da tutti, ma che ora richiede una revisione in profondità delle strategie (risorse, specializzazioni, ecc.). Dall’altra è emerso prepotentemente, come chiave di volta, il tema del territorio, della comunità, dei servizi di prossimità, che comprendono sia la medicina generale che la salute mentale, la disabilità, l’assistenza domiciliare, le residenze socio-sanitarie, le comunità: servizi da sviluppare e da integrare tra loro, con le reti sociali e con l’ospedale. Non è forse fondamentale ripensare a fondo in questa ottica le politiche di sistema? Bastano interventi dall’alto od occorre coinvolgere alla base tutti i soggetti in campo?
A esemplificazione dei punti suddetti si può guardare alla salute mentale e ai problemi correlati. L’ansia e l’angoscia infatti sono all’origine, come suggerisce l’esperienza clinica di questi tempi, di disturbi depressivi, di vari episodi critici, di forme di riacutizzazione non sottovalutabili (con aumento anche dei suicidi), tanto da indurre l’Oms a rivolgere un appello per potenziare i servizi competenti a intervenire. Cosa quanto mai opportuna perché, mentre il bisogno aumenta di giorno in giorno, continua la tendenza al depauperamento dei servizi di salute mentale, proprio ora che i loro punti di forza, tra cui l’unitarietà, l’integrazione e la continuità ospedale-territorio sono riconosciuti come modello di riferimento per tutta la sanità.
Riguardo nello specifico ai giovani – che hanno vissuto la fase delle limitazioni e del distanziamento da Covid in un modo ancora da interpretare tra resilienza, trasgressioni e iperadattamento – è da almeno 20 anni che si osserva un crescente disagio a carico della popolazione adolescenziale e giovanile, con un incremento a due cifre dei disturbi e una diminuzione della loro età di insorgenza. Al di là del rilievo epidemiologico, la sofferenza dei ragazzi preoccupa e si intreccia con aspetti esistenziali, educativi e sociali che caratterizzano la nostra epoca. Vi è grande attenzione nel mondo a questo fenomeno e diversi progetti anche in Italia cercano di affrontarlo in una logica di integrazione tra vari servizi sanitari e psicosociali e il coinvolgimento della rete sociale delle comunità locali del territorio per offrire un’interlocuzione prossima e condivisa. Ma forse deve ancora prendere forma un vero pensiero che sostenga gli interventi. Ne vorremmo riparlare presto.