Si sta discutendo del piano di riforme che il ministero della Salute sta predisponendo per rafforzare il Sistema Sanitario Nazionale e avviare una medicina di territorio, non solo basata sugli ospedali. Per realizzarlo verranno utilizzati i soldi del Recovery Fund, se non verranno richiesti quelli del Mes che l’Europa ha destinato alla sanità. Non si è ancora sopita la polemica sulla gestione del Covid-19 tra regioni e governo centrale e si è in apprensione sul come gestire la possibile recrudescenza della pandemia. Saranno quindi decisive le scelte che verranno fatte per attuare quelle riforme necessarie alla tutela della salute pubblica.
Eppure la sanità non è solo questione di “sistema”. Per riformarla non basta avere a disposizione una grande quantità di denaro, e nemmeno avere le idee chiare su dove e come utilizzarlo. Un recente episodio avvenuto in una struttura per malati cronici in Lombardia me lo ha ricordato.
Una donna che vive da sola viene trovata in casa da una vicina, a terra da molti giorni. È in gravi condizioni, viene portata in un ospedale. Qui il personale scopre che la donna ha inoltrato una richiesta di ricovero in una struttura di lungodegenti, e così la trasferisce subito, senza prestare alcuna cura. La donna è tutta dolorante, completamente disidratata e imbrattata di feci, con ulcere in tutto il corpo e non ripulite. Porta con sé solo un cuscino e un sacchetto contenente un paio di ciabatte. Sembra proprio una figlia di nessuno.
Le infermiere impiegano quasi tre ore a ripulirla e medicarla, visto che geme per il dolore ogni volta che viene toccata.
Domina in loro lo sgomento, il fastidio per lo stato della donna, l’indignazione per il mancato pronto intervento del primo ospedale, lo sconcerto perché ci possano essere nel 2020 persone che vivono così abbandonate. Hanno lavorato per ore per lei, in preda ai sentimenti che il suo stato suscitava, ma – come racconta l’infermiera protagonista dell’episodio – nessuno la guarda in faccia veramente, “in fin dei conti fino a quel momento era come un oggetto del nostro lavoro, senza umanità e personalità”. Verso mezzogiorno le cure più urgenti sembrano finite e l’infermiera mentre sta uscendo, quasi per routine, chiede alla donna se ha bisogno di qualcosa. La risposta è sorprendente: “Sì, gradirei pesce fresco e gelato”.
Quella risposta è come se risvegliasse il personale del reparto che si mobilita e poiché il pesce è previsto solo alla sera chiedono alla direttrice di poter attivare la cucina, di far preparare del pesce e di poterle portare anche un gelato. Il cibo arriva e la donna mangia con grande soddisfazione davanti al personale che la guarda commosso in silenzio.
L’infermiera commenta: “Quella donna ci ha fatto vedere che lei era di più di un corpo distrutto. Lei dentro quel corpo era viva, non ha smesso di desiderare, di voler gustare le cose belle. E ha chiesto. Ed era felice mentre mangiava. È ancora grave ma noi continuiamo a volerle bene e ad accudirla con nel cuore e negli occhi il momento in cui gustava quel pasto”.
Alla fine, che cosa conta che una persona destinata probabilmente a morire in pochi giorni possa gustare il cibo che desidera e avere un momento di felicità in una vita piena di sofferenze e abbandono? Conta tanto. Conta quanto il fatto che un medico del pronto soccorso esca a informare i parenti che per ore, per colpa del Covid-19, devono stare fuori senza notizie sui loro cari. Significa molto, come ha significato per molti che sono morti di Covid-19 salutare i figli, il marito, la moglie attraverso l’i-pad di qualche medico e infermiere che si è prestato, andando al di là del suo dovere. Sono cose che non contano nulla per chi pensa che curare un malato sia un meccanismo, un servizio pubblico da esercitare anche con bravura sul paziente. Tutto per chi pensa che salute e medicina debbano essere “per” il malato e i suoi cari, per una persona che non può solo essere “gestita” ma va “incontrata”.
Tutto ciò si chiama civiltà. Al di fuori c’è barbarie, magari tecnologica ed efficiente, ma sempre barbarie.