“Non si può fingere un pensiero”, dice Lucy (ma sarà questo il suo nome?) citando Ralph Waldo Emerson. Il cinema di Charlie Kaufman, che sia diretto da lui come questo Sto pensando di finirla qui, o solo sceneggiato come Se mi lasci ti cancello, da sempre cerca di riprodurre il meccanismo del pensare, il lavoro delle cellule cerebrali traducendolo in inquadrature, in raccordi di montaggio, in sondi narrativi. Quindi cerca La Verità.
Questo suo terzo film da regista, come i precedenti (Synecdoche, New York e Anomalisa) è tutto “ambientato” dentro un cervello, dentro i pensieri che lo popolano e le immagini che esso crea: i protagonisti sono una coppia, Lucy e Jake, che stanno recandosi a casa dei genitori di lui, per fare conoscenza reciproca. Il viaggio è filtrato dai pensieri di lei, dal suo disagio emotivo, ma una volta giunti a destinazione la percezione di realtà per la ragazza e per lo spettatore subirà più di uno scossone.
Kaufman parte dal romanzo di Iain Reid per andare ancora più a fondo dentro una commedia esistenzialista in cui la distorsione mentale diventi vera e propria chiave di costruzione e lettura del racconto, non sia solo il tema del film ma anche il suo personaggio principale delineandone lo stile: a ogni cervello, il suo film. Così dopo la megalomania di Philip Seymour Hoffman del primo film e le personalità multiple dei personaggi animati del secondo, l’autore sceglie stavolta vie più intimiste, raccontando dall’interno i percorsi di vite quotidiani, la stratificazione di non detti, rancori, rimorsi e rimossi che rendono fragili le nostre vite.
Ma fin dall’apertura, il cinema e lo stile di Kaufman sono ben lontani dall’ordinarietà: le scelte visive del direttore della fotografia Łukasz Żal e la voce over di Lucy, che sciorina tutto il suo flusso di coscienza facendo pensare subito al teatro di Eugene O’Neill (Strano interludio), l’immagine in 4:3 che chiude i personaggi in un’inquadratura stretta sembra una gabbia che si riempie di parole ossessive, le continue citazioni e i costanti riferimenti al mondo esterno al film guardano al cinema intellettuale di Godard. Poco a poco, il film e lo sguardo del pubblico si destabilizzano, i toni, i registri e lo statuto dell’immagine si sfaldano, mutano forma e quella che pareva una grottesca farsa di sentimenti irrisolti diventa qualcos’altro, un viaggio in una vita attraverso il prisma di una mente stanca e sconfitta.
Sto pensando di finirla qui è come detto un film-cervello che però rischia costantemente di incartarsi nel mero gioco mentale, che sceglie di sottomettere l’emotività del racconto e dei suoi personaggi alle sue raffigurazioni esterne, riempiendo il flusso audio-visivo di indizi ed elementi che privano lo spettatore della libertà dell’interpretazione e lo costringono alla decifrazione, a cercare una risposta giusta e non una risposta possibile. Una scelta che tende a sminuire la portata di un film del genere, come se Kaufman ripiegasse su una verbosa lagna, cercando a bella posta la depressione dello spettatore e al contempo sfidandolo in un quiz (e non è Nolan, in cui il gusto ludico si rispecchia nell’azione, nelle forme dei suoi film: si veda Tenet).
Per fortuna, il film ha una consapevolezza di stile che lo salva dall’abisso e così, più si allontana dai modelli, dalle parole, dalle situazioni teatrali, più si apre, si solleva e si libera: tutta l’ultima parte, in cui la presunzione di realtà è ormai un ricordo e si erra in paesaggi scopertamente mentali, ha la forza, la levità comunicativa e l’eclettismo adatto per svelare le proprie emozioni. Più si allontana dai personaggi, più si avvicina allo spettatore: un paradosso di cui Kaufman avrebbe dovuto tenere conto un po’ di più.