Dopo un 2019 in cui, secondo Taipei, le incursioni aree cinesi sono aumentate del 129%, il mese di settembre ha visto i cieli dello stretto di Formosa affollarsi di caccia cinesi intenzionati a far sentire la propria presenza alle forze di difesa taiwanesi. Sentendosi chiedere il motivo del perché gli aeroplani cinesi avessero superato la simbolica “linea mediana” che separa lo spazio aereo dei due paesi, un portavoce del ministero degli Esteri della Repubblica Popolare Cinese ha risposto in modo laconico che non esiste nessuna linea di confine da superare, per il semplice motivo che l’isola di Taiwan appartiene alla Cina.
Il fatto che le provocazioni cinesi, presentate come manovre “legittime e necessarie” siano avvenute mentre a Taiwan era presente il sottosegretario agli Affari economici americano, Keith Krack, fa intendere che la Repubblica Popolare vede l’intensificarsi dei rapporti fra i due rivali come una seria minaccia alla propria “sovranità” e sicurezza.
A chiudere definitivamente la porta a una stagione di distensione aveva pensato la presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, che in un recente discorso aveva liquidato la formula “un paese, due sistemi” con cui i cinesi avevano progettato la riunificazione pacifica con Hong Kong prima e con Taipei poi.
Indubbiamente il 2020 è l’anno in cui la questione di Taiwan emerge con tutta la sua decisiva portata geopolitica e al momento ogni possibile riavvicinamento sembra appartenere a un’altra epoca delle relazioni internazionali. Ha destato particolare stupore il video diffuso dall’aviazione cinese in cui si mostra un attacco simulato a un’isola le cui fattezze sembrano ricordare la base di Guam, il perno della strategia americana nel Pacifico occidentale. Il video dal solo valore propagandistico, non a caso pubblicato il giorno seguente la partenza di Keith Krack, è latore di un chiaro messaggio: l’opzione militare è sul tavolo e la Cina inizia a prenderla seriamente in considerazione.
Non è difficile immaginare che Pechino osserverà con molta attenzione i giorni che seguiranno le presidenziali Usa, in modo da fruttare a proprio vantaggio e in qualsiasi modo l’eventualità in cui gli Stati Uniti dovessero precipitare in una crisi domestica. Se i venti di guerra hanno ripreso a spirare nel Mar cinese meridionale, va ricordato che al momento sono lontani i giorni delle due crisi dello stretto di Formosa, in cui nel 1950 e nel 1958 si arrivò a un passo dal conflitto aperto e in cui si valutò la possibilità dell’opzione nucleare. Anche se nel 1995 si registrò una terza crisi nello stretto, la questione di Taiwan è evidentemente il frutto avvelenato dell’eredità di Mao.
Tralasciando sullo sfondo l’importanza geopolitica dell’isola nel cuore del Mar cinese meridionale, la questione che ideologicamente lega la figura del Grande Timoniere a Taiwan è centrale per comprendere le aspirazioni della leadership di Xi Jinping. Palesando la volontà di ricongiungere Taiwan alla Cina entro il 2030, Xi Jinping ha posto se stesso sul piano del padre della Cina moderna. In definitiva, intende chiudere una questione che Mao aveva aperto, consacrando definitivamente la sua figura di leader.
Se già nel XIX congresso “Il pensiero di Xi Jinping sul socialismo cinese per una nuova era” era stato incorporato nella Costituzione del partito – onore che era spettato soltanto a Mao e a Deng – la riunificazione con Taiwan sancirebbe definitivamente la dignità epocale della figura di Xi Jinping; un risultato dal grande valore anche e soprattutto per la politica interna, perché domerebbe definitivamente i suoi oppositori e chi intende sfidare la sua leadership, magari prefigurandone il successore.
Gli storici del futuro probabilmente scriveranno molte pagine sulla discontinuità rappresentata da Xi nei confronti della stagione di riforme di Deng Xiaoping e quindi fra una prospettiva in cui la Cina lancia la sua sfida agli Usa come potenza egemone globale e una multipolare ed equilibrata gestione delle relazioni economiche e commerciali, ma al momento non possiamo non registrare la portata della partita che si gioca sulla vita degli abitanti di Taiwan.
Naturalmente, in una fase di incertezza radicale come quella attuale, risulterebbe sbagliato avere forti convinzioni circa la strategia di Xi, che pragmaticamente può virare in qualsiasi momento sul versante “armoniosa” ed “equilibrata” dell’espansione cinese, ma non può certo sfuggire il significato reale della volontà del presidente cinese di porsi sullo stesso piano di Mao. Una questione in cui ideologia, geopolitica e sfida tecnologica sono strettamente connessi e contribuiscono a dare alla contesa per Taiwan un valore paradigmatico per la competizione globale del XXI secolo.