Covid, la paura e la domanda dei giovani

Durante la pandemia e anche dopo si è registrato un aumento dei disturbi psichici. E la grande domanda di disagio che sale dai giovani esige nuove risposte

Abbiamo visto che l’epidemia del Covid ha colpito con maggior gravità alcune fasce di popolazione vulnerabile, come le persone anziane e con patologie fisiche multiple, e che si sono rivelate non meno vulnerabili persone considerate fragili in quanto affette da disturbi psichici o da disabilità gravi, per le quali l’effetto del “contagio della paura”, come è stato definito, ha avuto un ruolo decisivo.



Ad esso si sono sommate le misure restrittive, quasi a moltiplicare i fattori di stress e ad ampliare il bersaglio su gruppi di popolazione esposta a causa di condizioni di disagio psicologico e/o sociale, così come su minori, adolescenti e giovani.

L’impatto della pandemia sul soggetto ha agito provocando un vero e proprio trauma, similmente a quanto accade nel corso di eventi catastrofici. Anche qui l’angoscia della malattia e della morte ha conosciuto picchi violenti, ma in aggiunta l’ansia si sta prolungando nel tempo (un fattore di stress acuto che evolve in cronico è più nocivo). Il problema diventa di salute pubblica tout court, essendo la salute un bene della persona nella sua globalità fisica, psichica e costituita da relazioni sociali, come tutta la medicina sa.



La salute mentale è parte del complessivo tema della salute. E certamente si è registrato durante e dopo la pandemia un incremento dei disturbi psichici – spesso nuovi casi, in persone cioè che non ne avevano mai sofferto prima – in particolare tra gli anziani e i giovani, con disturbi depressivi e d’ansia; frequenti pure gli episodi di riacutizzazione in forma grave. Si richiedono sempre maggiori interventi ai servizi competenti, che anche secondo l’Oms sono da potenziare. I Centri di salute mentale territoriali in questi mesi, quasi a confermare il carico d’angoscia legato ai cambiamenti dei modi di vivere, rilevano un netto aumento delle richieste di aiuto da parte della popolazione giovanile.



Piove sul bagnato. Infatti chi opera nel campo non solo della psichiatria, ma anche della psicologia, della pediatria, della neuropsichiatria infantile e delle dipendenze da tempo segnala le difficoltà di questa fascia di popolazione. Gli adolescenti e i giovani manifestano segni di un disagio che cresce in misura esponenziale nel corso dei due ultimi decenni e che si esprime in modo eclatante a livello epidemiologico con l’incremento dei disturbi psichici e la diminuzione dell’età d’insorgenza.

La preoccupazione rispetto a questo fenomeno nel mondo è generale, tanto più che la sofferenza dei ragazzi è reale. Indubbiamente il livello clinico suscita allarme e ha fatto sì che dagli anni ’90, a partire dall’Australia ai paesi anglosassoni, si siano diffusi una serie di programmi per cercare di intervenire in modo precoce e specifico. Negli ultimi 25 anni il pensiero psichiatrico più innovativo ha identificato un’importante area clinica e di ricerca costituita da giovani e adolescenti ad alto rischio di evoluzione in disturbi gravi o all’esordio della malattia, nei quali il riconoscimento precoce di segnali, spesso aspecifici, e l’intervento multidimensionale e mirato, può ritardare l’insorgere della malattia, attenuando o interrompendo il procedere della patologia e della disabilità. Si sono sviluppati nuovi servizi rivolti alle età tra i 12 e i 24 anni per intervenire precocemente e individuare i fattori di rischio. L’organizzazione è concepita in senso integrato e unitario, evitando lo spezzettamento delle competenze tra servizi per minori o per adulti e offrendo un approccio facilitato e senza filtri al ragazzo. I modelli di trattamento utilizzano metodi psicosociali, psicologici e psicoterapeutici, non necessariamente farmacologici.

Ma l’emergenza clinica è probabilmente solo la punta di un iceberg costituito in gran parte da un intreccio di problemi esistenziali, sociali, educativi, che sono il nucleo del disagio e che la nostra epoca favorisce. Questa consapevolezza sembra ora farsi strada in diversi progetti, all’estero come in Italia, che cercano di affrontare in termini nuovi il problema valorizzando le “coalizioni di comunità” e non il solo aspetto medico di diagnosi e terapia precoce. Una prevenzione, quindi, che si tenta di realizzare, da una parte, sulla via di una reale integrazione tra i diversi servizi sanitari e psicosociali e soprattutto, dall’altra, coinvolgendo la rete sociale delle comunità locali del territorio.

Si tratta di un aspetto nuovo e decisivo per offrire ai ragazzi la possibilità di avere interlocutori cui rivolgersi fidati, prossimi e non connotati da ruoli, ad esempio negli oratori o nei luoghi di aggregazione. I vecchi servizi non sono attrattivi per un giovane, ne ha timore e sente di non poter essere capito e aiutato.

C’è da aprire un cantiere. Occorre anzitutto che i progetti-giovani innovativi si diffondano e che si radichino in territori non concepiti come mere delimitazioni geografiche, ma (Covid insegna) come comunità fatte di persone, di relazioni, di storie. Serve perciò un investimento di sforzi per aiutare la comunità (operatori, politici, scuole, famiglie, associazioni) a focalizzare il punto e a farne una nuova frontiera di impegno per le reti primarie ed esperte.

La realtà attuale rispetto al passato è profondamente cambiata e a diversi livelli: anzitutto i quadri clinici che si presentano all’osservazione non corrispondono alle classiche distinzioni nosologiche, hanno caratteristiche miste tra disturbi psichici, uso di sostanze, comportamenti violenti o devianti, giovanissima età, contesto socio-educativo e familiare spesso disgregato; inoltre, le famiglie dei ragazzi diversamente dal passato offrono riferimenti meno stabili e i modelli di terapia familiare sono difficilmente praticabili; infine, l’organizzazione dei servizi nel territorio, divisa per età e patologia, è divenuta del tutto obsoleta e va ripensata di fronte ai bisogni attuali dei giovani.

Giovani che hanno davanti una società nichilista ma molto giudicante, che vivono legami in genere labili, che sembrano affogare più che nell’angoscia in un vuoto di senso, ma che eppure con il loro linguaggio (da capire!) domandano di appartenere, di uscire dalla solitudine e dallo smarrimento. Il solo intervento specialistico medico e psicoterapeutico sembra avere le armi spuntate. Come un operatore o un’équipe può accogliere la domanda e inventare nuove risposte per raccogliere la sfida che pongono oggi questi ragazzi?

C’è molto da studiare per affrontare la questione nella sua globalità, raccogliendo esperienze, valorizzando e integrando altri differenti punti di vista, ad esempio di educatori, sociologi, filosofi. Ci siamo assunti – come gruppo di lavoro preparatorio ad un convegno – l’impegno di ampliare lo sguardo per andare alla ricerca di un pensiero che prenda forma più compiuta e possa fondare e sostenere gli interventi in favore di adolescenti e giovani così in difficoltà.

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