Carlo Acutis è un miracolo da guardare. Ma bisogna stare attenti, non è scontato. Perché ci sono almeno due modi facili facili per non guardare: una è la rapida dimenticanza, favorita dal bombardamento di messaggi oltre che magari dalla nostra consueta smemoratezza; l’altra è spiaccicare la figura del santo nella figurina che una volta era l’immaginetta obtorto collo a uso devozionale, adesso può essere l’immagine-etichetta a uso mediatico. Tipo il santo dei millennials o l’influencer di Dio (manco il beato Acutis fosse l’alternativa clericale alla Ferragni). Non che siano definizioni sbagliate. E si capisce anche che ci vuol pure un qualche elemento che incuriosisca per titolare una notizia. L’importante è poi però guardarci bene, dentro ai fatti, e non fermarsi alle classificazioni che legittimano l’illusione di sapere già.
Guardare. Questo significa, in fondo, proclamare un beato: non farlo andare in Paradiso a seguito di processo canonico, tanto lassù ci è già arrivato di suo, ma riconoscere e mostrare e invitare a guardare un’umanità indiscutibilmente bella, compiuta, lieta e desiderabile; per poi scrutare e riconoscere cos’è che ha reso quella umanità così. E cioè il fatto che aderire a Dio compie ciò che più profondamente desideriamo, ciò per cui il cuore è fatto. Perché il ragazzo beatificato era certamente ricco di doti naturali, che da sole però non bastano a spiegare la sua fede, la sua gioia, la sua carità, la sua passione missionaria, la sua esuberante fioritura: perché Carlo sarebbe stato allora un superuomo o un supereroe, il che è un’assurda stupidaggine. Carlo è stato un giovane uomo vero.
Carlo è stato un ragazzo che guardava. Risulta che nutrisse particolare ammirazione per alcuni santi morti giovanissimi, uno martire, Tarcisio, gli altri di malattia: Luigi Gonzaga di peste, Domenico Savio di tubercolosi, i due pastorelli di Fatima per la spagnola. Ammirazione niente affatto scontata. Perché Tarcisio, se vogliamo, è facilmente convincente, ma gli altri quattro, di primo acchito, mica tanto. Tarcisio infatti, adolescente, fu martirizzato nel 257 d.C. perché portava il pane consacrato ai cristiani in carcere per la comunione: scoperto, strinse al petto il Corpo di Gesù così forte che gli assalitori non riuscirono a strapparglielo e lo ammazzarono.
Gli altri quattro santi arrivavano, almeno agli adolescenti della mia generazione, sotto forma di immaginetta: sia nella figura stampata, sia nei racconti edificanti. Di San Luigi si lodava la scrupolosissima ossessiva purezza e si cantava “O Luigi, o vago giglio, di candore immacolato…”. Capirai che attrattiva. In compenso a Domenico Savio si cantava: “Di rose e di gigli cospargi il sentier…”. Stesso registro, insomma. Quanto ai pastorelli di Fatima, non capivamo proprio che merito avessero: la Madonna era apparsa loro, embè?
Così queste figure di santi noi non le guardammo, e chi ce le proponeva (o propinava, come sembrava a noi), non riusciva a farcele guardare alla maniera giusta. Carlo Acutis le ha invece guardate, non fermandosi evidentemente all’obtorto collo, ma andando a cogliere in loro ciò che interessa il cuore della vita.
Che l’abbia aiutato qualcuno o l’abbia fatto da solo, chissà; resta che ha guardato e riconosciuto. Avrà certo considerato che Luigi non era un esagerato sessuofobo, ma uno che al potere ha preferito il servizio a Dio e agli appestati, fino a morirne a 21 anni. Che Domenico, allievo di don Bosco a cui chiedeva di aiutarlo a farsi santo, ha creato a 12-13 anni la Compagnia dell’Immacolata, e poi si è dedicato a curare, rimanendo indenne come promesso da don Bosco, i malati di colera. Che i due pastorelli hanno sempre coraggiosamente reso testimonianza al vero, e alla Signora. Cioè tutti si sono dati interamente, pur giovanissimi, all’Ideale riconosciuto come significato della vita. Questo il beato Carlo ha saputo guardare.
Deve anche pur esserci stato qualcuno che direttamente o indirettamente l’ha aiutato a guardare così. Forse non la famiglia, all’epoca non praticante. Ma qualche incontro, sì. Forse qualche suora marcellina di Milano, dove Carlo ha frequentato le elementari; o qualche gesuita del Leone XIII in seguito; o forse ancora il parroco di Santa Maria Segreta, che il ragazzo frequentava.
Si dice, ed è vero, che siamo in piena emergenza educativa. Valori e regole non funzionano più. Il dover essere non attacca. Ma questo tutto sommato è una buona opportunità. Il peggio è che la “macchina del mondo” depista il desiderio e devia lo sguardo dei ragazzi verso insufficienti o false mete parziali, e ultimamente verso il nulla. È cruciale che i ragazzi siano aiutati a guardare dalla parte giusta, e a cogliere l’attrattiva del bello e del vero incarnati. Come Carlo. Ma bisogna che l’educatore abbia lui quello sguardo.