Caro direttore,
apro, come tutti i lunedì, il calendario del mio cellulare per ricordare i miei appuntamenti. Mi trovo davanti il 12 ottobre: Columbus Day e subito sotto: Indigenous People’s Day. Il mio cellulare rimane in inglese, ma questo cambio mi lascia attonita. Torno indietro al calendario del 2019 per verificare la stessa data di quella che è una festa che celebra, come oggi scrive il Post, la Italianness (anche questo è un termine nuovo e sorprendente sui giornali americani: termine che vuole tradurre italianità, senza alcun riferimento storico che nella nostra Italia contemporanea ha ancora un che di sapore amaro, ahimè) e trovo che, in effetti, l’anno scorso appariva, come sempre, solo Columbus Day.
Faccio questo dopo aver letto, sempre sul Washington Post di oggi (ieri, ndr), un articolo critico di ciò che descrive in modo condiscendente: la riverenza per l’esploratore in Italia. Questa condiscendenza statunitense per gli italiani non si è spenta dagli anni del dopoguerra, e si manifesta già nel titolo stesso dell’articolo, dove si dice che sebbene gran parte degli States non celebri questo giorno, in Italia… in Italia non abbiamo abbattuto le sue statue, non insegniamo a scuola tutta la storia di questo personaggio: insomma, siamo un paese limitato e aggrappato ai suoi miti. Verrebbe da dire: è un problema loro, per non fare un discorso che sarebbe non esaustivo dei loro miti e della loro storia propagandistica.
Più interessante invece è questa aggiunta, chiaramente provocatoria, di collocare nella stessa data quella di un popolo, che esiste come nota a piè di pagina nelle scuole americane dove chi conosce la storia (quella che non viene insegnata) parla delle Nazioni Invisibili dei popoli autoctoni. Scelgo questa parola, autoctono, che è quella più giustamente in uso nell’America latina, al posto di “indigeno”, che fino a qualche decennio fa era considerato un insulto dal movimento della correttezza politica, perché si doveva dire Native American. La scelgo perché io ricordo ancora che nei film western degli anni 50 (a proposito di miti: in South Dakota, nella città chiamata Belle Fourche, c’è un piccolissimo museo dove, appena entrati, un gigantesco e sorridente John Wayne di cartone, in veste da cowboy ci saluta), l’indigena o Indian di quei tempi era il nemico selvaggio e un termine dispregiativo.
Che appaia tutto ad un tratto, sotto a Columbus Day, un Indigenous People’s Day serve, ancora una volta, a mettere un popolo contro l’altro – ormai la divisività è la norma – sminuendo il primo, di nuovo, e ipocritamente innalzando l’altro, che la storia statunitense non ha fatto ancora nulla per riscattare dall’oblio in cui così efficacemente è stato cacciato. Bisogna cominciare a parlare di razzismi, piuttosto che di razzismo e l’orizzonte è sconfinato.