La curva dei contagi da Covid ha ripreso a crescere. È una magra consolazione verificare che altri Paesi europei hanno trend di crescita dei positivi maggiori del nostro. Preoccupa che i reparti ospedalieri preposti ad affrontare la seconda ondata sono stati solo in parte potenziati. Ciò segnala che, indipendentemente dal ricorso ai fondi Mes per investimenti sulla rete sanitaria, si è fatto poco o niente di quanto potevano fare Governo e Regioni in questi mesi. Anche per quanto riguarda il famoso slogan delle tre T, “tampone, tracciamento e trattamento”, non si vede ancora nulla di affidabile per quanto riguarda il tracciamento.
Da qui la preoccupazione maggiore. Invece di conoscere i nuovi focolai e quindi riuscire a intervenire con quarantene e nuovi limiti mirati, si torna ad agitare una paura generica che porta a individuare nel lockdown l’unico strumento plausibile, ma ciò sta creando un mix di panico e incredulità, con conseguente deresponsabilizzazione, nella gente.
Sul fronte lavorativo la situazione rischia di precipitare in dibattiti astratti e in continui rinvii delle decisioni utili. Anche semplici amanti delle statistiche avevano previsto che con il blocco dei licenziamenti fino a fine anno si poteva ipotizzare, con un calo del Pil di circa il 10%, al termine del blocco circa un milione di disoccupati in più.
Quanto previsto a primavera si sta avvicinando ed è diventato certezza per i rappresentanti sindacali e delle imprese. Ma non è diventata decisione di spostare risorse dalle politiche passive a un piano di politiche attive del lavoro capace di affrontare la nuova fase di disoccupazione fino ripresa di tutti i settori dell’economia. Si sprecano invece i dibattiti e le sollecitazioni per aumentare il ricorso allo smart working come se questo fosse una risposta adeguata per affrontare la nuova fase della pandemia. Proporre oggi lo smart working come soluzione ricorda Maria Antonietta che proponeva brioches al popolo che chiedeva pane e lavoro.
A oggi ciò che è avvenuto, e che continuerà in assenza di una regressione dei contagi, è il ricorso di massa al lavoro a distanza o telelavoro per quelle professioni che lo consentono. La scuola è un buon esempio di quanto è, più in grande, avvenuto in pressoché tutti gli ambiti lavorativi. Nessuno era preparato ad affrontare una situazione come quella che ci si è presentata, neppure le aziende che avevano già avviato esperienze di smart working. Tornando all’esempio della scuola possiamo ritenere che i lavori di segreteria e di amministrazione si siano spostati nei salotti di casa proseguendo (rete di connessione e disponibilità di computer permettendo) quasi con le stesse scadenze con cui venivano eseguiti in ufficio.
L’insegnamento spostato a distanza è stato un salto nel buio per tutti gli insegnanti e solo pochi si sono sottratti alla prova. Certo non c’era una didattica pensata per una situazione simile, non tutti gli studenti erano in grado di partecipare. Tutti hanno detto poi che l’attenzione, e quindi l’efficacia, era molto inferiore alle lezioni in classe.
L’attività di coordinamento e programmazione, con i soliti limiti di rete e strumentazione, si è avvalsa di Zoom e altri programmi per riunioni a distanza ed è proseguita in modo quasi normale. Attività sospesa completamente invece per tutti i lavoratori addetti alle attività di supporto sia tecnici che addetti a vigilanza, pulizia e quant’altro. Con un’importante differenza fra dipendenti pubblici, che non hanno avuto tagli economici, e quelli di aziende private che gestivano in appalto i sevizi, pur svolgendo le medesime mansioni, e sono stati messi in cassa integrazione con una decurtazione del reddito.
Se dovessimo concludere con il confronto con le altre attività dovremmo aggiungere la difficoltà a svolgere attività commerciale, e quindi la programmazione del futuro, che il solo collegamento on line non permette di svolgere.
Questa è stata la descrizione che può essere applicata alle attività lavorative nel loro complesso: telelavoro per attività terziarie, blocco per tutte le attività normali e aperture solo per servizi essenziali.
Non è certamente lo smart working la risposta per una riorganizzazione di quanto sta avvenendo. Questa fase può però essere utile per immaginare che alla ripresa della normalità lo smart working, lavoro agile come lo definisce la nostra legislazione, abbia una diffusione nuova e possa diventare un aspetto importante della riorganizzazione del lavoro, almeno in molti settori dei servizi e del terziario.
Sarà bene allora che già oggi si pongano le basi di discussione e si decidano alcune linee guida per non incorrere in distorsioni che avrebbero un impatto negativo sulle politiche del lavoro del Paese. In troppi commenti si considera lo smart working come un’attività che permette lo svolgimento del lavoro senza vincoli di tempo e di spazio: fallo dove vuoi e quando vuoi tanto il controllo a distanza e la misurabilità degli obiettivi permette di stabilire il compenso dovuto. Molti di questi modelli tendono ad assomigliare più alla gig economy che alla riorganizzazione del lavoro d’ufficio e prefigurano quindi una riedizione dell’organizzazione fordista del lavoro, decentrato nelle abitazioni. Si arriverebbe a una generalizzazione del cottimo invece di ottenere una maggiore flessibilità organizzativa.
Proprio per questa ragione la necessità di una cornice contrattuale da parte delle organizzazioni sindacali è indispensabile. Questa cornice non deve però intaccare un punto fondamentale che è l’adesione individuale alla proposta di smart working. Anche con tutto il rispetto delle regole legislative e contrattuali lo smart working non può essere una decisione solo collettiva, ma deve prevedere elementi di contrattazione legati a una scelta individuale che il lavoratore definisce con la propria azienda.
Si apre così un terreno nuovo per le rappresentanze che dovranno saper coniugare interesse collettivo e interessi individuali. Sarà un ritorno al sindacato che fa servizi e non solo contratta e rappresenta.