Non è un vero e proprio seguito Peninsula, ma l’espansione di un universo che il regista Yeon Sang-ho aveva creato prima con Train to Busan e poi con il prequel animato Seoul Station, ossia due dei più apprezzati film di zombie degli ultimi anni.
Ambientato 4 anni dopo il primo film, racconta di una Corea sigillata e messa in perenne quarantena a causa dei morti che la popolano: ma dal resto dell’Asia arrivano navi che fanno affari di contrabbando. Il protagonista è coinvolto in uno di questi affari, ma finisce bloccato nella penisola coreana assieme a una strana famiglia e ai sopravvissuti coreani che hanno riorganizzato la vita in modi barbari.
Assieme a Park Joo-Suk, Yeon scrive solo in apparenza una variazione dei precedenti film, sostituendo il treno e la stazione di polizia alla nave e alle automobili che percorrono le strade infestate di zombie e rottami, in realtà guarda al cinema di Carpenter, a Fuga da New York e al post-apocalittico urbano degli anni ’80.
Il che significa abbassare di molto le pretese e rendere il tutto ancora meno originale: le sfumature politiche sono quasi del tutto assenti (l’apocalisse a un passo dalla riunificazione delle due Coree, il Nord come zona apparentemente libera prima dell’invasione, i rapporti tra le nazioni confinanti), i temi sociali sono abusati e trattati velocemente, le scene madri aprono e chiudono il film in maniera incredibilmente enfatica.
Però stavolta a Yeon non interessa la costruzione di una dimensione narrativa, ma il semplice gioco dell’intrattenimento: a partire dall’entrata in scena delle due sorelle abilissime al volante o alla guida di auto radiocomandate, Peninsula cerca toni più leggeri, quasi umoristici (contraddetti quindi dall’apertura e dalla chiusura) e un andamento più convenzionale che Yeon cerca di tirare al massimo grazie a un’azione convincente e a buoni – di sicuro eccessivi – effetti visivi.
Ci sono poche idee, più di uno scivolone e si sente anche la mancanza di un vero senso narrativo rispetto alle due precedenti pale del trittico, ma c’è anche un solido e coinvolgente senso dello spettacolo, magari fine a se stesso ma efficace. Chi si accontenta, può anche godere.