Mentre gran parte della pubblicistica dibatte sul reale valore dei dati dell’Ufficio nazionale di statistica della Cina che registravano una crescita dello 0,7% del Prodotto interno lordo rispetto all’anno precedente, il sorpasso dell’economia cinese su quella americana, prevista per il 2030, si è già realizzato.
A sostenerlo sono il Fondo monetario internazionale nel suo World Economic Forum e la Cia, che per misurare il reale valore di un’economia nazionale hanno deciso di utilizzare come parametro il Ppp (Parità del potere d’acquisto), uno strumento che testimonia il sorpasso dell’economia cinese, ormai un sesto più grande di quella del rivale americano per un valore di 24,2 trilioni contro 20,8 trilioni.
Gli analisti che sostengono che gli Usa sia ancora l’economia più grande del mondo – che sono, va detto, ancora la maggioranza – utilizzano come indice il Market Exchange Rate (Mer), ovvero il tasso di cambio di mercato che calcola il Pil utilizzando come baseline l’economia americana, uno strumento elaborato nel secondo dopoguerra quando, cioè, l’economia Usa valeva la metà del Pil mondiale. In base a questo metodo il Pil Mer cinese vale 14,6 trilioni di dollari, mentre quello Usa 20,8 trilioni. Ma come ha fatto giustamente osservare Graham T. Allison, il PPP “elimina le differenze nei livelli di prezzo tra le economie”, mettendo a confronto le economie nazionali in base a quanto ogni nazione può comprare con la propria moneta al prezzo delle merci vendute sul proprio mercato domestico. In definitiva il Mer definisce il potere d’acquisto dei cinesi calcolato con i prezzi americani, mentre il Ppp quanto realmente i cinesi comprano ai prezzi cinesi.
Giustificando il perché abbiano abbandonato il Mer in favore del Ppp, gli analisti economici della Cia hanno sostenuto che il Mer sottostima il livello della produzione cinese rispetto al resto del mondo, mentre il Ppp è lo strumento più efficace per comparare la produttività e il benessere di una economia nazionale. In base a questi parametri l’economia cinese sarebbe, quindi, la più grande del mondo.
Un risultato che verrebbe in parte confermato dal fatto che la Cina è il principale partner commerciale delle maggiori potenze industriali e dalla quota che quest’anno supererà quella degli Stati Uniti negli investimenti in nuove tecnologie e in Ricerca & sviluppo. Saranno i prossimi mesi a dirci se queste stime hanno un reale valore, in particolare toccherà all’andamento del dollaro farci capire lo stato di salute dell’economa americana e il modo con cui gli Usa affronteranno i giorni che seguiranno la proclamazione del prossimo presidente.
Ad ogni modo i dati dell’Ufficio di statistica nazionale di Cina che ci dicono che l’economa del Dragone è tornata a crescere superando la crisi pandemica e lo scenario descritto dall’Outlook del Fmi e dagli analisti Cia impongono una serie di riflessioni.
La prima è inerente alle conseguenze della pandemia in corso che ha accelerato il peso geopolitico della Cina e aumentato le sue aspirazioni egemoniche.
La seconda è relativa a una domanda che, seppur alquanto banale, non ha avuto ancora una risposta e riguarda il perché al momento sia la sola Cina a crescere, mentre il resto del mondo arranca.
Probabilmente la fine della pandemia vedrà anche la definitiva affermazione dell’India, ma è indubbio che il caso cinese si presenta agli osservatori come una straordinaria e al contempo misteriosa eccezione.
Trovare nelle caratteriste del modello cinese, tecnocratico e non democratico, la risposta alle questioni illustrate in precedenza è probabilmente la strada più facile che, oltre a porre dei seri problemi circa l’esportabilità del modello in questione, deve ancora fare i conti con la risposta americana, che come negli anni Novanta vide il ricorso dell’opzione militare – la Prima guerra del Golfo – e dell’influenza geopolitica per controbilanciare l’ascesa dell’economia giapponese che sembrava sul punto di diventare la maggiore al mondo. Wall Street, il Pentagono, la Silicon Valley e perché no Hollywood, ebbero in quel frangente un ruolo decisivo, mentre in questa complessa fase di transizione sembrano più interessati allo scenario domestico che alla sfida cinese.
Come detto in precedenza non dovremo aspettare molto per capire la reale portata della risposta Usa; al momento, però, possiamo mettere sul tavolo un’ipotesi che riguarda lo stato di salute delle economie asiatiche legate alle catene del valore cinesi e alla riconfigurazione del modello di sviluppo di Pechino.
Il Regional Economic Outlook del Fmi dedicato alle economie asiatiche prevede che le economie dell’area dell’Indo-Pacifico arrancheranno ancora e nel medio periodo è decisamente prematuro prevedere un ritorno ai livelli che precedevano la crisi. Paesi che grazie al basso livello di inflazione probabilmente ricorreranno a reali politiche di monetarizzazione del debito, ma che sono destinati ad accusare il peso di questa fase di incertezza finanziaria e geopolitica. I paesi connessi strettamente all’economia cinese non torneranno a correre, mentre Pechino sembra essere in buona salute.
Verrebbe da chiedersi a chi la “fabbrica del mondo” stia vendendo le sue merci e in che modo la sua produzione stia ricombinando gli output assicurati dalle reti delle sue imprese. La risposta va cercata nel fatto che il Dragone sta cambiando pelle, ovvero sta portando a compimento quel processo che avevamo anticipato più di un anno fa. La Cina non è più l’opificio del mondo e punta al consolidamento del proprio mercato interno di 400 milioni di consumatori, le cui potenzialità per certi versi sembrano ricordare quello degli Usa della Gilded Age. Agli economisti non può sfuggire che la Cina del paradigma produttivista e dell’economia basata sull’offerta in una fase di incertezza decida di proteggersi dalle turbolenze riscoprendo le virtù della dinamica della domanda aggregata. In definitiva la Cina vuole evitare di ritrovarsi nella “trappola del reddito medio”, ovvero nella situazione in cui un paese che ha avviato il suo sviluppo raggiunge un reddito medio soddisfacente per la maggioranza dei suoi cittadini, ma poi conosce una fase di stagnazione, perché non riesce a fare il salto da una produzione a basso valore aggiunto a una ad alta tecnologia. Un pericolo che Pechino scongiurerà basando l’aumento della produttività generale su un mix di innovazione tecnologica e sostegno al consumo.
Indipendentemente dalle considerazioni del Fmi e della Cia, sembra chiaro che per Pechino sia arrivato il momento di capitalizzare al meglio tutto il vantaggio strategico accumulato negli ultimi anni e durante la pandemia.