I negoziati sul pacchetto di bilancio si stanno prolungando perché non c’è ancora accordo tra il Consiglio (cioè i governi) e il Parlamento europeo sul bilancio 2021-27 e sul meccanismo di condizionalità sullo stato di diritto. Un segnale sinistro sul piano politico mentre il contagio rimette in clausura il Vecchio Continente. Non fa piacere leggere che, proprio quando s’abbassano le saracinesche sui bar di Parigi e di Milano con ricadute drammatiche del coprifuoco, la presidenza tedesca dell’Ue preveda almeno 10-14 giorni per definire i “dettagli”, ad esempio come destinare le multe dell’Antitrust al bilancio comunitario invece di trasferirle ai Governi nazionali.
Il rischio è che le trattative si prolunghino fino a novembre inoltrato, facendo slittare l’adozione della decisione sulle risorse proprie (essenziale per far partire il Recovery fund) e il processo di ratifica da parte dei Parlamenti nazionali (per il quale servono 2-3 mesi). Il risultato? Il Recovery fund senz’altro non partirà a gennaio, forse nemmeno a febbraio. Un pessimo segnale, soprattutto dal punto vista della comunicazione. Nel frattempo gli indici Pmi confermano che l’economia dell’Eurozona rallenta, anzi rischia di fermarsi.
Per carità. L’importante è arrivare comunque al traguardo purché si arrivi bene senza i pasticci tipici dei processi legislativi all’italiana. Inoltre, dopo l’approvazione del provvedimento, ci vorranno almeno sei mesi per ottenere l’anticipo del 10% della quota allocata a ciascuno Stato membro. Non è un disastro perché il Recovery fund è retroattivo: saranno finanziati anche i progetti approvati nel 2020 e nella prima parte del 2021. Prima o poi, insomma, i soldi arriveranno. I ritardi legislativi non giustificano perciò alcuna inerzia parolaia. Anzi, il ritardo presenta almeno un vantaggio: evitare la concorrenza alle emissioni Sure, lo strumento per finanziare la cassa integrazione europea, che ha debuttato in settimana in maniera trionfale confermando l’interesse dei mercati per gli strumenti dell’Unione europea che dispongono di un rating tripla A.
Non è il caso dunque di prendersela con Bruxelles, ma neanche di perder tempo prezioso. Sia che si utilizzi il Mes o meno: il caso dei tassi di mercato, tra l’altro, si rifletterà presto in un nuovo calo dei tassi di sottoscrizione, cosa che potrebbe convincere alcuni Paesi, come il Portogallo, a chiedere l’adozione del Mes. In ogni caso, il quadro ormai è chiaro: la Bce si accinge a immettere soldi, tanti soldi, per finanziare l’economia rimediando per quel che si può, ai ritardi della politica fiscale frenata dal solito conflitto tra il Nord del Continente e l’area del Sud (compresa la Francia).
Niente di nuovo sotto il sole, viene da dire. Ma l’economia non aspetta. L’apparato produttivo italiano, in particolare, rischia di finire nel tritacarne. Specie se il sistema bancario che pure presenta interessanti progressi, si troverà costretto a tagliare il credito per fronteggiare i nuovi vincoli posti dall’Autorità di Vigilanza. Oppure a far coincidere i merger del settore (batte alle porte l’accordo tra Banco Bpm e il Crèdit Agricole) con nuovi limiti alla concessione di credito al sistema delle imprese.
Intanto si moltiplicano gli accordi internazionali, ultimo caso Saras, in cui un’azienda italiana finisce nell’orbita di un grande gruppo internazionale. Non è di per sé un dramma, anzi è l’unico modo per garantirsi un futuro. Ma non facciamo finta di niente. Il nostro futuro non può essere autarchico, ma non deve avere i caratteri della colonizzazione. Come ben sa Leonardo Del Vecchio, il grande vecchio che si accinge a prendere il controllo di Mediobanca.