In tempo di Covid sul fronte dell’arte è accaduto un fatto nuovo: ci sono artisti che hanno portato a galla un bisogno che è innanzitutto loro, un bisogno di ritualità. Mi spiego con la concretezza delle esperienze. A Bergamo all’interno di una mostra bella e molto corale sulle opere e sulle iniziative solidali generate durante il lockdown della scorsa primavera (al Mudec, fino al 21 gennaio), c’è un’opera che si segnala per la sua natura “collettiva”: s’intitola “Ricordo di un dolore” ed è firmata da un duo di videoartisti milanesi, i Masbedo. Lo spunto è un quadro molto popolare e molto iconico, custodito nella pinacoteca bergamasca, l’Accademia Carrara. È una tela di Pellizza da Volpedo dove si vede una giovane donna abbandonata su una sedia, ferita nell’anima dal contenuto della lettera che tiene tra le mani.
Cosa ne hanno fatto i Masbedo? Semplicemente hanno proposto che quell’immagine, così emblematica rispetto all’esperienza di un territorio drammaticamente ferito dalla pandemia, diventasse perno di un “rito” collettivo. Ne hanno fatte delle riproduzioni a dimensioni reale e hanno proposto a gruppi di abitanti della Val Seriana di attacchinarle sulle strade e nei dintorni delle stazioni della ferrovia che sale fino ad Albino. Sono gesti compiuti con semplicità ma sempre carichi di commozione, che il duo ha filmato e poi montato in un video che scorre come una lunga silenziosa preghiera.
C’è anche un’appendice sorprendente, in quanto il rito si conclude con un’azione simbolicamente fortissima. Un alpinista, con la riproduzione del quadro sulle spalle, è salito sulla vetta della Presolana, fin sotto la grande croce di ferro, in un cammino che è come una processione solo apparentemente in solitaria; un’ascensione, nel senso più pieno del termine.
È chiaro che la forza di un’azione come questa sta nella sua dinamica collettiva: gli artisti raccolgono e danno forma ad un bisogno di far memoria, che non può essere relegato in una dimensione individuale. Deve farsi coro, deve potere assumere la forma di un rito.
Un qualcosa di simile è accaduto a Milano. Nella piccola chiesa di San Carlo al Lazzaretto (proprio quella ricordata e attentamente descritta da Manzoni nel capitolo XXXVI dei Promessi Sposi) un artista islandese, Raniar Kjartansson, ha proposto un altro tipo di rito: per un mese, per sei ore al giorno, un gruppo di organisti si è alternato per intonare una delle canzoni più amate e struggenti del repertorio italiano, “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli. La canzone è stata riarrangiata per organo, proprio quell’organo che viene evocato nel testo. Sull’altare della piccola chiesa ottagonale (ancora in funzione) si scorgeva l’immagine di San Carlo che dà la comunione agli appestati (accadeva proprio in quello stesso luogo…) ed era perciò inevitabile pensare che quel “rito” sonoro fosse un equivalente delle immagini che dopo il dramma della peste avevano riempito la città per far memoria di quella ferita così dolorosa. Un rito laico e contemporaneo, ma suscitato da domande e bisogni che restano gli stessi. Bisogno di un abbraccio, a cui la musica, in quel luogo così carico di memoria, prova a dare forma; domande di senso che non possono restare intrappolate in una dimensione individualistica, ma che chiedono di farsi timidamente coro.
L’intervento di Kjartansson è stato proposto da Fondazione Trussardi, ma è bello sottolineare come la parrocchia nel cui territorio si trova la chiesetta del Lazzaretto abbia dato il suo sostegno convinto all’operazione, in particolare nella persona del parroco don Marco Artoni; lo stesso che anni fa aveva accolto nella chiesa di San Bartolomeo la Via Crucis di Adrian Paci, uno dei più riusciti e pertinenti innesti di arte contemporanea in un edificio religioso, che personalmente abbia mai visto.