Medicina di base, sanità territoriale, ospedali e terapie intensive: un nodo difficile da sbrogliare, quando il sistema è sotto stress come mai prima. Il governo è pronto ad un nuovo lockdown per controllare la curva dei contagi e impedire il saturarsi delle rianimazioni, ma qual è il ruolo svolto dai medici di base nell’affronto della pandemia? Abbiamo chiesto al dott. Roberto Nardi, medico di base nel Varesotto, di raccontarci come funziona l’ingranaggio dell’assistenza sanitaria, dalla telefonata al medico di base all’eventuale ricovero ospedaliero, passando per gli step intermedi, le modalità diagnostiche e i tracciamenti dei contagi. Ieri il bollettino ha fatto segnare un nuovo record, con 24.991 casi, +4,42% rispetto a mercoledì, 205 morti in più rispetto al giorno precedente (+0,54%), +3.416 guariti (+1,26%) e +125 terapie intensive (+8,86%) per un totale di 1.536. I ricoverati con sintomi sono attualmente 14.981, +1.026 (+7,35%) rispetto a ieri.
Partiamo dalle basi. Qual è il percorso che segue quando un paziente la contatta per un sospetto di positività al Covid?
Il percorso è questo: faccio una conversazione telefonica con una checklist sui sintomi, poi comincia un periodo di osservazione, sempre telefonica, una sequenza di telefonate per cui se la situazione non evolve si va avanti coi farmaci per controllare la febbre, altrimenti si ricorre ad antibiotici e antinfiammatori fino a richiedere eventualmente il supporto delle Usca, se il quadro si aggrava.
Cosa sono?
Le Usca sono le Unità speciali per la continuità assistenziale, sono state attivate a livello nazionale durante la prima ondata di Covid, anche se so che non sono ancora attive dappertutto. È una responsabilità dell’azienda sanitaria territoriale gestire questa parte che è, diciamo così, un’estensione organizzativa del servizio di guardia medica. Sono gruppi di medici più attrezzati in termini di protezione che su richiesta del medico generale possono andare a casa del paziente e fare anche un’attività diagnostica, ad esempio un’ecografia per vedere se i polmoni hanno problemi. Naturalmente fanno anche il tampone, se il paziente non l’ha già fatto.
E dove può averlo già fatto?
Privatamente se aveva un sospetto, magari era rimasto asintomatico e si è aggravato, o in ospedale su mia richiesta. Io ho accesso a un portale attraverso cui inserisco i dati del paziente, il paziente viene richiamato dalla struttura responsabile della gestione dei tamponi, gli viene dato un appuntamento e si reca in ospedale. Ci sono tende o drive-in, il paziente non entra in ospedale. Entro 48 ore c’è il risultato.
Che succede se il paziente si aggrava?
Se il paziente peggiora si rende necessario il ricovero ospedaliero e lì il mio compito finisce.
Da quando è scoppiata la pandemia, durante la prima ondata e ora anche con la seconda, sente di aver avuto direttive chiare come medico?
Nella prima ondata la mia zona, Varese, è stata la provincia meno toccata, anche se ci sono stati dei casi, un mio paziente anziano è anche deceduto purtroppo. Il virus c’è stato ma non è stato un impatto fortissimo, questa seconda ondata è sicuramente più pesante. Noi abbiamo la nostra società scientifica che si è fatta portatrice di una serie di interventi per dare delle istruzioni pratiche per poter gestire i pazienti. abbiamo inoltre condiviso materiale tra di noi discutendo via social e anche ricevuto materiale informativo dall’azienda sanitaria.
Quali sono le difficoltà?
Ad esempio c’è questa modalità telefonica a cui non eravamo abituati, usare il telefono come costante strumento diagnostico. Ci sono stati degli interventi di supporto a livello di linee guida, anche se l’altro corno del problema è che le conoscenze su come affrontare questo virus sono ancora parziali: la terapia che si fa è ancora piuttosto empirica, basata sulla osservazione dei pazienti, sulla evoluzione delle lesioni nei pazienti più gravi, ma non ci sono certezze matematiche. siamo ancora in una fase di test and treat, come direbbero gli inglesi.
Quante telefonate riceve ogni giorno?
Una sessantina.
E che incidenza osserva nei suoi pazienti?
Quello che noto in questa seconda ondata è che una larga parte dei pazienti si ferma a una fase di quasi totale asintomaticità. Tantissimi pazienti che risultano poi positivi mi avevano chiamato per dirmi di aver avuto solo un po’ di mal di gola e raffreddore, magari una febbre bassa per mezza giornata.
Cosa si fa in quei casi?
In questi casi non c’è bisogno di ulteriori cure perché una volta usciti dalla fase acuta i pazienti stanno bene, poi però c’è tutta la fase di tracciamento di altre persone che possono essere state contagiate.
Il tracing quindi è ancora verosimile?
Il tracing è di competenza dell’azienda sanitaria territoriale. La cosa funziona così: se il tampone è positivo viene automaticamente dichiarato all’azienda sanitaria territoriale, che prende in carico il nominativo del paziente e lo contatta il più presto possibile per capire quale può essere stata la sua situazione di contagio. Essendo numeri molto elevati ora c’è un carico di lavoro rilevante.
Qual è il criterio per scegliere quali contatti testare?
Il criterio sono le 48 ore precedenti e i contatti stretti. Contatto stretto vuol dire contatto con la saliva o comunque con i liquidi vitali del paziente, un contatto fisico come una stretta di mano, un abbraccio, un bacio, uno stare nella stessa stanza senza mezzi di protezione per più di 15 minuti. Se c’è un contatto stretto si procede a fare un tampone. Il contatto casuale non viene testato, il paziente viene istruito a ridurre i contatti sociali il più possibile e controllare un eventuale sviluppo della sintomatologia, in quel caso l’atteggiamento cambia. Ad esempio l’insegnante di una classe dove un alunno è risultato positivo è considerato un contatto casuale, se tutti indossavano la mascherina. Certo per prudenza si può fare lo stesso il tampone.
Col nuovo Dpcm per voi medici di base è cambiato qualcosa?
Non è cambiato nulla adesso come adesso, il vero problema è di responsabilità personale.
C’è chi ipotizza la chiusura dei pronto soccorso o chi, come il primario del Sacco, dice che se andiamo avanti così la gente tornerà a morire in casa e nelle ambulanze. Cosa ne pensa?
Vista la situazione generale cerco di tenere i pazienti il più possibile a casa perché sono convinto che un paziente che rimane clinicamente entro determinati limiti di gravità può essere gestito a casa con farmaci ed eventualmente con l’ossigenoterapia. Occorre tenere presente che i letti ospedalieri sono una risorsa preziosa da utilizzare solo quando effettivamente necessario. entrare in ospedale significa poi essere esposti ad un elevato stress emotivo in quanto il paziente rimane forzatamente isolato da tutti. quindi il ricovero va usato solo se appropriato per le condizioni cliniche del paziente.
È così che evitiamo di contribuire al collasso degli ospedali?
Il collasso dell’ospedale sicuramente è da evitare, il problema è rendersi conto che se non ci sono urgenze cliniche il decorso della malattia è tale che può essere curata a casa. Ripeto, al momento sto vedendo un sacco di gente con pochi sintomi o asintomatica.
Fra i suoi pazienti ce n’è qualcuno in terapia intensiva?
Ora solo uno, è un anziano con altre sei patologie croniche importanti. Con questo non voglio dire che la gravità della malattia è un problema solo degli anziani. Abbiamo soggetti fragili da tenere il più lontano possibile dal virus e gli anziani sono certamente tra questi. Combattere il virus, mantenendo il distanziamento, applicando le norme igieniche e, magari, sacrificando un poco le nostre abitudini è un problema di tutti. Purtroppo vedo molta irresponsabilità in questo e non solo tra i giovani.
Gli ospedali quindi sono sotto stress o no?
Mi sembra che in questo momento qui a Varese siano in una fase intermedia in cui stanno riorganizzandosi per avere più letti a disposizione per i pazienti affetti da Covid, le unità intensive non sono nella situazione in cui erano a marzo 2020 ma sicuramente c’è un incremento di pazienti, dovuto anche al fatto che stiamo facendo moltissimi tamponi in più.
(Emanuela Giacca)