È evidente che i disordini di piazza di questi giorni contro l’ultimo Dpcm del presidente Conte sono il frutto della mancanza di una prospettiva generale sentito da tutti, di cui alcune frange estremistiche si sono impadronite in una sorta di rappresentanza diretta del malcontento dei cittadini. Si tratta di un segnale che non va sottovalutato.
Il malumore serpeggia anche tra tutte le forze politiche, sia di opposizione, il che è naturale, sia di maggioranza, se è vero che nella riunione dei gruppi di questa con il governo tutti hanno espresso critiche e perplessità sulle misure adottate.
Un uomo solo al comando è sempre una condizione pericolosa per un governo, soprattutto per un governo democratico parlamentare. Conte ha perseguito questa linea istituzionale, facendo leva sulla paura causata dalla pandemia del Covid-19. Prima (31 gennaio 2019), la dichiarazione di emergenza nazionale, che attivava il potere di adottare ordinanze di protezione civile, che forse vanno oltre i confini della costituzionalità e della legalità; poi, un decreto legge (il n. 6 del 23 febbraio 2020) che usava un atto amministrativo in concorrenza con la legge ordinaria, che tagliava fuori il Parlamento, il Presidente della Repubblica e persino il Consiglio dei ministri. Insomma pezzo dopo pezzo, anche dopo le modifiche apportate dal Dl n. 19/2020, sono cadute tutte le garanzie di ordine costituzionale, istituzionale e politico che uno Stato di diritto e una democrazia parlamentare conoscono.
È vero che nei momenti cruciali si è assistito ad un’inedita consultazione della Conferenza dei presidenti delle Regioni, ma per quanto questa sia stata utile, e dovrebbe essere una costante delle relazioni Stato-Regioni, improntate alla leale collaborazione, non può supplire al confronto collegiale in seno al Consiglio dei ministri e, tanto meno, a quello parlamentare, nel quale possono intervenire le opposizioni.
Le stesse Regioni hanno reagito a questo modo di procedere, sia perché le loro richieste non sono state spesso accolte, sia perché il modo di procedere di Conte (e del ministro Boccia) spesso risultava funzionale ad attribuire loro, in modo ingiustificato, molte delle responsabilità del disagio sanitario creato dalla pandemia.
Le opposizioni, poi, si sono lamentate di non essere state considerate affatto, nonostante Conte abbia lasciato intendere nelle sue dichiarazioni che le avrebbe non solo sentite, ma anche ascoltate.
Ma le stesse forze di maggioranza hanno continuamente lamentato la scarsa collaborazione del Governo con il Parlamento; tanto è vero questo che, per superare queste critiche, Conte non ha esitato a mettere la fiducia nell’approvazione dei decreti legge, impedendo ogni confronto parlamentare con la sua maggioranza.
Al netto di tutto ciò, poi, il problema è che il lockdown pandemico non è stato semplicemente una questione di rispetto delle procedure e dei ruoli costituzionali delle diverse istituzioni, ma anche e soprattutto una questione di contenuto. Infatti, quando è stato istituito il lockdown nazionale, abbiamo assistito al passaggio dalla logica dello Stato di diritto alla logica della prevenzione. Due modelli costituzionali opposti: nel primo prevale il riconoscimento e la tutela dei diritti con la limitazione del potere pubblico; nel secondo invece i diritti scompaiono ed è tutto vietato, salvo ciò che espressamente le disposizioni consentono ai cittadini di fare. Ed è stato esattamente questo il contenuto dei Dpcm della primavera scorsa e, almeno in parte, pure di quelli di questo autunno.
Un potere così “assoluto” costituzionalmente si legittima sul principio di effettività e dura, perciò, finché risulta efficace, cioè fin tanto che è in grado di governare e risolvere i problemi del governo di uno Stato, sino al ripristino della legalità della Costituzione. Lo Stato di eccezione non può che essere temporaneo; ecco perché la proroga dell’emergenza nazionale, prima a ottobre e poi a fine gennaio 2021 ha suscitato tante discussioni nell’opinione pubblica. Tanto più che le misure adottate per contrastare la seconda ondata non richiedevano misure eccezionali.
Tutti i sistemi costituzionali progrediti hanno regole per le emergenze, ma le guardano sempre con grande sospetto proprio in considerazione di quello che è accaduto nella storia. Il riferimento è al celebre art. 48 della Costituzione di Weimar che attribuiva poteri di emergenza al Presidente della Repubblica, attraverso cui Hitler arrivò al potere in modo “legale”.
La Costituzione francese contiene una norma importante sull’emergenza, l’articolo 16, che consente di interrompere “il regolare funzionamento dei poteri pubblici costituzionali”, ma mantenendo la presenza degli organi costituzionali attiva. Infatti, il Presidente della Repubblica può adottare le misure richieste dalle circostanze eccezionali, ma solo dopo aver ufficialmente consultato il Primo ministro, i Presidenti delle assemblee ed il Presidente del Consiglio costituzionale e avere informato la nazione con un messaggio. Le “misure devono essere ispirate dalla volontà di assicurare ai poteri pubblici costituzionali, nel minor tempo possibile, i mezzi necessari per provvedere ai loro compiti” e per queste misure è consultato sempre il Consiglio costituzionale. Inoltre, “il Parlamento si riunisce di pieno diritto” e “l’Assemblea nazionale non può essere sciolta durante l’esercizio dei poteri eccezionali”. Insomma, poteri eccezionali e condizioni di tutela della Costituzione e della democrazia vanno di pari passo.
Nello stesso senso possiamo leggere anche la nostra Costituzione che nei confronti dell’organo Governo è estremamente generosa, più della maggior parte delle Costituzioni europee e non solo.
Al Governo si può conferire una delega legislativa che gli consente di legiferare, ma entro i limiti dei principi e criteri direttivi, per un tempo limitato e per oggetti definiti espressi dalla legge del Parlamento (art. 76 Cost.); senza delega il Governo, in casi straordinari di necessità e urgenza, può adottare decreti legge che devono essere convertiti in legge entro 60 giorni, altrimenti perdono efficacia sin dall’inizio (art. 77 Cost.); persino in caso di guerra la deliberazione di questa spetta alle Camere, le quali conferiscono al contempo i “poteri necessari” al Governo per condurla.
Come si vede, la nostra Costituzione non legittima mai atti di un solo uomo. Anche gli atti che compie il Presidente della Repubblica non sono validi se non sono controfirmati dai Ministri proponenti (art.89 Cost). Qui non si può disquisire sulla controfirma, posso solo aggiungere che il Presidente della Repubblica non è mai solo. Anche quando i suoi atti si concretizzano in una visita, in un viaggio, o in una presenza di questo in qualche luogo – lo si può vedere anche in televisione – è sempre accompagnato da un Ministro che legittima la visita, il viaggio o la presenza.
La domanda ora è: cosa succede se l’effettività del potere del Presidente del Consiglio si sgretola e non solo rispetto alla sua maggioranza in Parlamento, ma anche e soprattutto nel Paese? Cosa succede se è la piazza a interpretare il disappunto generale dei cittadini nei confronti del governo?
Si corre il rischio di arrivare al capolinea, come è stato scritto su queste pagine. Non basta di certo esorcizzare il problema, attribuendo la responsabilità dei disordini a forze politiche estremiste, bensì appare necessario ritornare nel più breve tempo possibile nell’alveo costituzionale e semmai passare dalla tipica dialettica democratica maggioranza/opposizione alla collaborazione propria della solidarietà nazionale.
Quello che stiamo vivendo, in Italia, in Europa e nel mondo, è sicuramente un inedito momento emergenziale, ma la logica della prevenzione che annulla i diritti – la libertà, in cambio della vita – non può essere una valida alternativa alla rule of law.
Si comprende, allora, che i guai procurati da Conte al sistema istituzionale, adesso che l’effettività del suo potere sta venendo meno, per i dissensi politici e sociali che si stanno manifestando, sono la causa che lo stanno facendo vacillare.
Nessuno ha interesse in questo momento ad aprire una crisi di governo; difficilmente peraltro il Presidente Mattarella riuscirebbe a ricomporla con una nuova maggioranza, visto soprattutto il disorientamento che sembra colpire i partiti di maggioranza. Inoltre, con la pandemia in corso andare a elezioni potrebbe rivelarsi una iattura. Tuttavia, qualcosa deve cambiare, così non si può andare avanti. L’intero sistema istituzionale va ricollocato sui binari della Costituzione.
Qualcosa è stato detto nei giorni scorsi per rinsaldare la posizione del Parlamento e rimetterlo al posto di chi deve determinare la politica generale del Paese la cui esecuzione spetta al Governo; l’idea è quella di un comitato parlamentare di tutte le forze di maggioranza e di opposizione che assuma gli indirizzi politici da sottoporre alle Camere, con un confronto dialettico, ma collaborativo, con il Governo.
In un mio precedente articolo nel quale già prospettavo la necessità di sospendere il conflitto politico e di instaurare, anche con nuove procedure, la convergenza delle forze politiche sulle decisioni di governo, ritenevo che la sospensione del conflitto avrebbe salvaguardato le stesse forze politiche, di modo che nessuna parte possa rinfacciare, finita la pandemia, gli errori e le perdite di questa fase che sicuramente ci saranno; ma avrebbe soprattutto rassicurato i cittadini, protetti dal lavoro comune di tutte le forze politiche.
Ovviamente, bisognerebbe discutere tanto, come già si fa, ma non nei talk-show o sui giornali, per colpire l’opinione pubblica, bensì in modo prudente e presentando i risultati del confronto sempre con estrema cautela.
Il Covid-19 è come una guerra e in guerra nessun contendente può essere certo di vincere, per questo devono essere uniti gli sforzi del Paese.
Il richiamo alla guerra non è casuale. Nel sistema del single party inglese durante la seconda guerra mondiale fu istituita una carica apposita, in seno al governo di Winston Churchill, per il leader dell’opposizione, che divenne “ministro dell’opposizione” proprio per significare l’unità politica del Paese. Si trattava del leader laburista Clement Atlee, che in precedenza aveva osteggiato tanto la nomina di Churchill a Primo ministro. Da Conte, in fondo, si pretende molto meno.