Oltre a essere forse il più celebre sceneggiatore americano in attività, Aaron Sorkin è anche uno studioso del rapporto tra il ritmo filmico e quello della parola detta, della relazione apparentemente invisibile tra montaggio e suono della voce, come autore e showrunner di favolose serie tv (The West Wing, Studio 60 on the Sunset Strip, The Newsroom), come sceneggiatore cinematografico (The Social Network, Steve Jobs) e come regista.
Il suo secondo film, Il processo ai Chicago 7 – su Netflix – dietro la macchina da presa continua questo studio in modo sempre più spregiudicato (e decisamente più riuscito del suo esordio Molly’s Game) che è anche un modo per raccontare la politica americana e la sua comunicazione. La storia vera è quella dei Chicago 7, sette attivisti che nel 1968 parteciparono a una manifestazione durante la Convention del partito democratico e che vennero coinvolti prima in scontri con la polizia e poi in un processo politico legato al cambio di amministrazione da Johnson a Nixon.
Sorkin scrive e dirige un dramma legale in cui, sulla base di questo processo, costruisce la sua riflessione a un tempo critica e idealistica contro il modo in cui la politica sfrutta i meccanismi dello Stato, per ribadire quali sono quei meccanismi e quale dovrebbe essere il loro corretto funzionamento. È un film civile e appassionato, in qualche misura anche didattico, con una propria peculiare idee di amore per il proprio Paese basato sulla forze delle idee, sull’importanze dei principi prima delle ragioni.
Non è un caso che il film volesse dirigerlo Spielberg prima di lasciare la regia allo sceneggiatore, perché c’è dentro la stessa urgenza di veicolare con le parole idee e pensieri alti e nobili, spesso legati alla Storia, che c’è nel suo ultimo cinema; qui, la chiave di volta dell’intreccio è in una singola parola, una singola particella intesa, detta o non detta, percepita o meno, che può cambiare il corso della storia e di alcune vite. È il cuore dell’epica e della poetica di Sorkin, come pure nel personaggio del procuratore Schultz (Joseph Gordon-Levitt) che deve portare a termine un processo cui nel cuore non crede davvero, in nome di quel gioco delle parti che è uno Stato democratico.
Più che nelle sue opere televisive o scritte per altri, e senza dubbio più che nel suo primo film, Il processo ai Chicago 7 ragiona su quel rapporto ritmico di cui scrivevo all’inizio in modo ancora più spregiudicato, sia con il montaggio di Alan Baumgarten che dà energia e vigore alla messinscena (per esempio, nell’apertura), sia attraverso un cast ricco e corale, con la gestione sempre più ampia e allo stesso tempo più serrata degli attori e delle inquadrature.
Il cast, va da sé, offre bei fuochi d’artificio come Eddie Redmayne, Sacha Baron-Cohen cantore-satiro com un po’ anche il suo Borat, il solito superbo Mark Rylance, la storia appassiona e nel finale commuove e se la ricostruzione visiva del periodo è un po’ manieristica, Sorkin e il suo amore, sconfinato nelle parole che danno vita alle idee, la sua fiducia per esse sa accenderla e trasmetterla con energia.