Gli anniversari, scanditi da eventi e cerimonie, assomigliano spesso a un ripetuto lungo funerale, nel quale la persona celebrata viene “esposta”, indifesa, e poi sepolta nuovamente sotto ogni genere di ricordo, di aneddoto vero o attribuito, o, peggio, di interpretazione. Magari, tutte, argute e originali, ma che poco servono a rifare l’esperienza dell’incontro con qualcuno che sia stato importante per la vita di una comunità intera, ad accedere, se esiste, a una sua memoria ancora vitale, come a far parte di una storia che non finisce.
Nel caso poi di un artista, il lavorio di dissezione non risparmia le sue opere, il cui effetto deve essere attutito, accompagnato, controllato, spiegandone ogni particolare, anticipandone ogni possibile emozione, perché nulla di imprevisto possa accadere a chi vi si avvicina.
Ma proprio per questo loro risvolto amaro, e in fondo quasi inevitabile (ci “mangiamo” sempre tutto, in una specie di “fase orale” permanente), gli anniversari sono anche i momenti nei quali, per contrasto, ci si accorge che la vita di tutti i giorni non basta, che quella vita che si vuole ricordare e “celebrare” – la sua diversità, il fascino cui l’associamo, la nostalgia che di essa ci invade – apre una breccia in un muro di scontatezza: come la voglia, il pungolo, il desiderio improvviso di abbracciare una sfida, la vertigine che ogni vita feconda pone, specialmente le vite di artisti, profeti, geni, santi, ossia di chiunque abbia avuto il dono e l’audacia di interrogare il mistero e l’infinito. In qualunque modo l’abbia fatto.
Rosita Copioli, poetessa e studiosa riminese, in questo primo centenario dell’amico Federico Fellini (1920-1993), sceglie una strada originale, e ci offre un libro (Gli occhi di Fellini, Vallecchi Editore) che rifugge dalla cristallizzazione di un ricordo o di un’interpretazione e ha il respiro invece – si potrebbe dire la scansione e il ritmo nell’argomentare – di una partita che non è ancora chiusa, nella quale si alternano il tremore delle scoperte vecchie e nuove, di ferite ancora non rimarginate, l’indignazione, a volte, per fatti che tornano alla mente, come seguendo qualcosa di ancora vitale: quel dialogo, certo, che in quel primo incontro del 1989 si è messo in moto.
Eppure, un libro pochissimo autobiografico, nel quale i ricordi personali sono centellinati, sempre solo accennati, usati invece come trama segreta per filtrare il racconto, per cogliere e offrire – dentro la gran mole di materiale d’archivio raccolto – la storia che corre tra i libri frequentati da Fellini e i suoi film, realizzati veramente o anche solo immaginati; e, soprattutto, lo svolgersi del fare creativo, che in fondo, di qualunque argomento si parli, rappresenta sempre il centro del dialogo tra due poeti.
Un conversare nel quale la realtà quotidiana e banale, oppure dolorosa, si offre – intera – nel suo dettaglio più piccolo, apparentemente insignificante: condivisa più che spiegata, indagata e non solo descritta, e con pazienza, lentamente, rivelata in un aggettivo, un altro, mai troppo calcato, naturale, che pure sorprende come qualcosa che ti appaia davanti, e così concreto, all’improvviso.
Ed è sufficiente rivedere o rileggere qualsiasi intervista a Fellini per accorgersi quanto questo sia vero e abiti il suo parlare e il suo stesso sguardo, così “rigoroso, esatto, inesorabile, in grado di smontare ogni ingranaggio fino all’ultima rotellina”.
E un conversare di cui il libro rende partecipi, lungo il quale ognuno – seguendo un proprio percorso di consonanze – può arrivare non solo a distinguere quello sguardo, a coglierne i movimenti, le espressioni, ma a immedesimarsi in esso, sulla soglia stessa dell’accadere dell’arte, dove il mistero buca in qualche modo il tempo quotidiano.
Ma questo “stare davanti” all’atto creativo, alla sua bellezza e alle sue contraddizioni, non è solo il modo con cui è stato pensato e composto il libro, è anche il suo argomento, in una corrispondenza che aumenta il piacere della scoperta a ogni citazione, collegamento, o particolare inedito si aggiunga nel corso della lettura.
I grandi occhi di Fellini, nei quali ritrovavi “ogni sfumatura concepibile nell’animo umano”, ne sono invece la prima ispirazione e la molla narrativa; poiché “è bene che la penna fermi sulla carta qualcosa che solo i suoi film possono testimoniare, ma che è nato soltanto dai suoi occhi”.
In questo viaggio, dunque, che vuole ricostruire e seguire lo sguardo di Fellini – un seguire sempre affascinato, mai distaccato, anzi costretto alla sua stessa mobilità, alla stessa apertura e imprevedibilità –, incontriamo i libri, gli autori, i maestri, le amicizie e le collaborazioni che hanno accompagnato il lavoro del regista riminese.
Come la prima scoperta, in un certo senso fondativa della sua opera: “Avevamo sensazioni minacciose, confuse, inquietanti, labirintiche ma pensavamo fossero non dei momenti che appartengono all’esistenza … bensì momenti passeggeri o di malessere. (…) Kafka ha proprio dato a questa somma di emozioni un senso, ha suggerito un significato, un punto di vista … passibile di interpretare le nostre contraddizioni, le suggestioni, gli incantesimi, le meraviglie (…) in rapporto con la ragione, pur conservando intatto il fascino della semioscurità, del mistero”.
Quasi una rivelazione, che gli permette, secondo le sue stesse parole, “di attraversare la vita abbandonandosi alla seduzione del mistero con il conforto di saperlo assimilabile dalla ragione”, di diventare quel “narratore di favole privatissime”, come dirà sempre di sé, che pur hanno l’orizzonte del mondo e del tempo, del suo limite segreto. In questo trovando una guida nel lavoro di Jung e di alcuni analisti della sua scuola di cui si fece amico; e anche tanti compagni di viaggio.
Tra questi, George Simenon, al quale l’univa un metodo di lavoro o, meglio, un approccio speciale all’immaginazione, e che gli scrive: “Al di sopra dell’intelligenza Jung poneva l’istinto dell’inconscio, soprattutto l’inconscio creatore: una definizione che potrebbe andar bene per il suo genio, caro Fellini”.
E infatti, nel corso delle loro conversazioni, Fellini dirà: “un tentativo di seguire fedelmente l’impulso iniziale, questa nostalgia dell’istante in cui hai afferrato un’infinitesimale particella del tutto e lo sforzo che fai per attirare a te questo tutto è la sola definizione del mio lavoro che mi sentirei di dare”. O ancora più esplicitamente, “un creatore è sempre un medium che capta la dimensione fantastica e la rende concreta. Attraverso parole, colori, immagini. Un giornalista ha chiesto a Simenon come scriveva i suoi libri. ‘A volte’, ha risposto, ‘lo spunto iniziale è un odore mai sentito prima’. Da un odore di fritto nasce una certa cucina in una città di provincia. Poi in questa cucina entra della gente. Per un artista sensuale tutto inizia da un contatto fisico con la realtà. Ebbene, per me è la stessa cosa. Prima di cominciare un film, non ne so quasi niente. Cerco di creare una certa atmosfera, con un rituale ben preciso, come un prestigiatore. Per aiutarmi a rendere concreto ciò che immagino, mi servo soprattutto dei volti. Guardo negli occhi la gente, attori e non, e i loro volti mi dicono: Guardaci bene, ciascuno di noi è un pezzetto del tuo film”.
Cosa sia il medium, l’autrice lo chiarisce ancora meglio: “Ossia dell’artista, del poeta, dello scrittore, del regista (e anche del buon artigiano), che si pongono sempre su una condizione di soglia, di tramite, per essere attraversati”.
Di questo compito, di questa ossessione, Fellini si farà volentieri servitore tutta la vita, senza la pretesa di svelare il mistero, ma solo di indicarne le “emergenze”, come un archeologo sulle tracce di una civiltà scomparsa; lui stesso in bilico sull’abisso faticoso di questa ricerca, nel quale “il rapporto con il caso era per lui vitale. Era una specie di sorgente alla quale non poteva finire di attingere per credere di vivere in una avventura perenne. Non voglio dire che pensasse al caso come al Destino. Ma credeva che si dovesse essere aperti a ogni possibilità, dove Dio o gli dei potessero nascondersi”.
Le immagini, i frammenti così raccolti prendevano infine una loro “imprevedibile forma vitale”, quella del film, con gli attori da “domare” e indirizzare, le parole scritte, riscritte e infine improvvisate: una forma da seguire come un mondo da abitare o un’attesa da condividere di qualcosa che accada.
Una vertigine, quella soglia, quella “particella del tutto”, nella quale ognuno si rivela ed è costretto a fare i conti con se stesso, regista o spettatore. Come il personaggio tra la folla che grida alla luna “Che faccio io al mondo? Che stiamo al mondo? nessuno ce l’ha mai detto” e le spara.
Come se Fellini stesso, nella “follia” di quello sparo (La voce della luna sarà il suo ultimo film), spinto dalla violenza e dal dolore di quelle domande – le domande di sempre, di ogni uomo, che magari non sa a chi rivolgere se non alla luna, che forse ascolta, forse se ne frega, forse sa qualcosa – avesse accarezzato l’idea di poterle mettere a tacere e che all’uomo in qualche modo possa essere risparmiata quella vertigine, quell’attesa suprema; un grido straziante, come uno squarcio, qualcosa di incontrollato, quasi istintivo, che espone il cuore nella sua nudità assoluta, che supera la macchietta, il grottesco, ogni paradosso; che il contorno di ipocrisia e borghesismi non riesce a cancellare; che il finale stesso del film, quando “Fellini riassume la parte del pazzo quieto … che chiede soltanto di ascoltare le voci che scendono dalla luna e salgono dai pozzi, di attenderle in silenzio”, in realtà smentisce. Dietro le maschere diverse, ognuno la propria – Fellini con “le sue acrobazie di clown, quei giochi lievi che ha prediletto” –, si torna ad aspettare.