Perché siamo stati travolti dalla seconda ondata? Ci sono fattori tecnici, medici, scientifici, psicologici, sui quali molto è già stato detto. Si è aperto un conflitto tra salute ed economia forse teoricamente infondato, ma certo reale e non sanato. Meno si è parlato delle componenti culturali, sociali e, quindi, politiche nel senso più ampio. In questo territorio lasciato scoperto sono maturate le proteste e le manifestazioni vandaliche. Le violenze sono manipolate e strumentalizzate, ma gli incendiari hanno soffiato su una brace che covava sotto la cenere. Quando prende la parola la piazza, non sappiamo mai bene che cosa dice e chi parla, anche per questo bisognerebbe evitarlo. Ed è qui che il Governo ha mancato.
Per andare subito al sodo, la coalizione giallo-rossa e il suo capo sono stati incapaci di passare dal consenso passivo della prima fase al consenso attivo che avrebbe dovuto sostanziare la ripartenza. Anche la visione distorta dell’Unione europea trasformata nel deus ex machina che doveva risolvere la tragedia italiana fa parte dello stesso errore. Questo fallimento è maturato in estate, ma in nuce esisteva già nel modo in cui è stato gestito il grande lockdown.
Ogni risoluzione di grande importanza si basa su due componenti fondamentali: la capacità di decidere portando fino in fondo la scelta, e il consenso. L’una non funziona senza l’altro. Le dittature il consenso le impongono, le democrazie le conquistano con la convinzione razionale e la partecipazione.
Il governo Conte ha deciso di governare dall’alto con i decreti presidenziali (i Dpcm) e ha cercato una scorciatoia tecnica moltiplicando i comitati di esperti; quando ha capito che non bastava ha allargato il campo seguendo la stessa impostazione (si pensi agli Stati generali a villa Pamphili). Coinvolgere l’opposizione e cercare di ampliare la maggioranza sono passaggi necessari, ma non sufficienti, anzi possono diventare solo un espediente di palazzo. Il consenso va costruito dal basso, dalle persone, cominciando con il dire la verità.
Il fondo europeo per la ripresa presentato a maggio è stato battezzato come un grande successo italiano che avrebbe risolto i nostri guai fin da subito, tanto che veniva ventilato l’anticipo di una ventina di miliardi fin dall’autunno: quei fondi avrebbero dovuto coprire gli investimenti, lasciando margini per tamponare la nuova emergenza che tutti si attendevano anche se pochi ne volevano parlare (i soliti gufi). Che il Next Generation Eu sia un importante passo avanti nella condivisione degli oneri finanziari in vista della ripresa è vero, che sia uno strumento pronto all’uso è sempre stato falso.
Oggi poi il ritorno della pandemia con una violenza e ampiezza queste sì inattese, riporta al centro le misure per tamponare l’emergenza in tutta Europa. E si scontano i nuovi ritardi di Bruxelles: non solo non c’è una politica sanitaria europea nonostante il gran parlare che se n’è fatto, ma non c’è nemmeno un vaccino europeo. Gli Usa e la Cina si muovono con la loro enorme massa critica, nel Vecchio continente ogni Paese si dovrà fra largo con i propri esili gomiti?
Dire la verità non è gufare, al contrario è la premessa per condividere le scelte. Roma non è la sola a essere stata colta di sorpresa e il Governo italiano non è l’unico a non aver costruito un ampio consenso popolare sulla guerra al coronavirus. Ma se questa è un’attenuante, non può certo diventare un alibi. È troppo tardi? Speriamo di no, alla condizione di invertire subito la rotta. Come?
Gli strumenti per un vero e grande dibattito nazionale ci sono, sono molti e oggi molti più di un tempo. Tra questi anche un uso migliore dei mezzi di comunicazione di massa a cominciare dalla televisione di stato. Il servizio pubblico non è mandare in onda comunicati ufficiali o pochi minuti di proclami senza contraddittorio. Meno che mai il balletto degli esperti.
Il primo passo resta sempre la trasparenza: spieghiamo bene, senza bluffare, quali risorse finanziarie abbiamo a disposizione, quanto è stato davvero stanziato e quanti dei 100 miliardi di euro in deficit sono stati davvero spesi, a chi sono andati e per fare che cosa. Ci vorrebbe un orologio della spesa un po’ come l’orologio del debito pubblico che è stato messo a Times Square a New York. Non per fare teatro, ma per rendere tutti davvero consapevoli. Ciò riguarda anche la sanità. È davvero difficile capire di quanto e dove è stata estesa la capacità di risposta degli ospedali. Una mappa aggiornata periodicamente sarebbe utile.
Non si tratta di ripetere espedienti tecnici come nella prima fase. Il dialogo e il coinvolgimento devono andare fino in fondo offrendo una prospettiva credibile, non si può andare avanti mese per mese. Se il Governo lo farà in modo sincero, allora potrà chiedere anche ai gruppi di interesse, alle associazioni di categoria, alle lobby e ai potentati economici non solo che cosa lo Stato può fare per loro, ma che cosa loro possono fare per gestire i cambiamenti necessari. Anche perché questo è l’altro punto debole.
A partire da palazzo Chigi per finire nell’ultima spiaggia siciliana o sulla più alta baita alpina, la convinzione comune è che tutto torni come prima. Questo è il desiderio più diffuso, che spinge a comportamenti irrazionali. La folla sulla cabinovia di Cervinia è l’immagine ultima di questa distorsione cognitiva. Ma per certi versi lo sono anche gli scontri di piazza a Firenze, a Napoli e nelle altre città.
Un’importante operazione verità come premessa per cercare il consenso attivo è spiegare che gli interventi pubblici dovranno essere selettivi. Oggi prevale una componente assistenziale, com’è comprensibile, ma c’è una componente programmatica, decisiva per creare una vera ripresa, che deve avere una regola di condotta molto chiara. Detta con una formuletta, i quattrini dei contribuenti debbono andare a chi produce valore aggiunto. Non è facile da spiegare, né da far digerire. Ma questa è l’arte di governo, non quella di gettare moneta (in debito) dall’elicottero.