Col tempo autunnale si presentano alla attenzione le opere che traggono da questa stagione il materiale per la loro arte. Tutti i poeti, scrittori e cantautori hanno sempre inneggiato all’estate come al compimento delle attese vitalistiche preannunciate dalla primavera: le verdi gemme inumidite che guardano al tepore delle giornate di sole come ad una promessa, in estate vivono la loro pienezza e diventano il pergolato della vite sotto il quale fare tardi la sera, il tempo del gustare quei grappoli d’uva in riva al mare che si identifica con un’immagine da cui non volere tornare indietro.
L’autunno invece è sempre stato presentato come la stagione della malinconia della vita che lentamente si spegne fino al lenzuolo funebre della neve invernale. Abbiamo assaporato l’estate, ma il suo ricordo sta già sbiadendo e non rimane che la nostalgia. L’autunno è la stagione della foglia verde che si secca, magari in un’ultima vampata color fuoco, ma il cui destino è sempre quello di volare via dall’albero che rimarrà spoglio come uno scheletro.
In realtà l’autunno, oltre ad essere caratterizzato dalle giornate di pioggia che fanno scendere la temperatura, è anche pieno di splendide giornate assolate con un bel tepore dopo i torridi pomeriggi estivi, in cui si può stare all’aperto a godersi il sole senza correre sempre a cercare l’ombra. Giornate di una luce amica.
Tra le tante opere che ricordano l’autunno ce ne è una in particolare che riesce a non censurare un lato della medaglia rispetto all’altro. Si tratta di una canzone dei Genesis del 1980. In quel periodo il gruppo cercava di cambiare poetica allontanandosi dalle complesse costruzioni che caratterizzavano la loro arte nel decennio appena concluso, per concentrarsi sulla proposta di più semplici canzoni che fossero di facile acquisizione da parte dell’ascoltatore, molto più a fuoco sulla confessione dei sentimenti del narratore o sul divertente intrattenimento. Insomma: incominciavano gli anni ’80 e interpretandone lo spirito nascondevano e mimetizzavano la propria tecnica per arrivare all’ascoltatore nell’immediatezza del pop. Ma questo album, Duke, è ancora un album di transizione e la forma del concept, così presente nel loro stile, funziona da cornice del disco da cui emergono le canzoni intime che preludono alla inaspettata prossima ventura carriera solista del cantante e batterista Phil Collins. Come spesso accade nelle pubblicazioni di grandi artisti, viene però relegata, fuori dal disco ufficiale, come lato B di un singolo, una gemma: la canzone del tastierista e principale compositore Tony Banks “Evidence of autumn”. E’ un sorta di compendio delle due anime dell’album: i brani fastosi del concept con il funambolico strumentale finale e le confessioni malinconiche quasi spaurite che crescono alla loro ombra. In questo brano Banks riesce a dipingere mirabilmente questa compresenza di luce e crepuscolo, il calore del sole e i primi brividi dei venti autunnali.
Gli accordi iniziali introducono il brano con un tritono (mi /si bemolle) che verrà ribattuto come una campana a morto in lontananza su tutta la frase della melodia introduttiva. L’intervallo di tritono (tre toni) è percepito dall’orecchio come uno dei più dissonanti e normalmente viene usato aggressivamente per tenere alta la tensione dell’ascoltatore, in questo caso invece è suonato in maniera molto sommessa, come se fosse un particolare non degno di attenzione, ma che rimane incastrato impedendo di chiudere il cerchio dei sogni. Dopo trenta secondi, entra in scena il primo squarcio di sole del ritornello: l’irruzione della ragazza di tutte quelle canzoni che riempì il tuo mondo di luce. Ma la frase introduttiva iniziale rimodula in minore preparando la strofa. Qui viene tratteggiata la circostanza dell’incontro con colei che riuscì a portare una novità là dove tutto era già saputo; qui la stessa melodia viene ripetuta prima su accordi minori poi su accordi maggiori alzati di un semitono, come un’anima inerte che riprende vita. La gioia della memoria di quei giorni non si contiene e riparte il calore del ritornello che sfuma ancora nel tritono delle battute malinconiche dell’introduzione: in questa alternanza sappiamo che c’è dell’altro, qualcosa di non detto. A questo punto il pianoforte chiede aiuto alle tastiere che avvolgono, come un abbraccio, il bridge in cui si scopre la realtà dell’abbandono del protagonista da parte di lei. E dove il dolore non ha più parole, rimane solo una ripresa strumentale che ripercorre di nuovo la spensieratezza di quegli attimi non meritati, per tornare al bridge quando il dolore affievolito dal passare degli anni, lascia ormai deboli ricordi di lei tranne la certezza che è stata l’angelo che ha riempito di luce il tuo mondo. Una pienezza impossibile da controllare, una pienezza impossibile da cancellare.
Giocando tra sprazzi di sole e i primi freddi, descrivendo la compresenza dello splendore del bene ricevuto e dell’impossibilità di possederlo, in cinque minuti la maestria armonica di Tony Banks riesce a fotografare il carattere di questa stagione. Un raro realismo.
Nell’immagine, dipinto di Douglas Aagard www.aagardart.com