Massiccia operazione militare francese nel Mali centrale, al confine con Burkina Faso e Niger, i paesi del cosiddetto Sahel, dove la presenza islamista legata ad al Qaeda si è fatta negli ultimi anni sempre più forte. Circa 50 terroristi sono stati uccisi e diversi altri arrestati, il tutto all’interno di una operazione contro lo Stato islamico nel Grande Sahara ancora più vasta e che vede impegnati oltre tremila soldati francesi. La presenza militare francese combatte l’islamismo dal 2014 e secondo Marco Di Liddo, responsabile dell’area geopolitica e analista responsabile del Desk Africa e del Desk Russia e Balcani presso il CeSI – Centro Studi Internazionali, “c’è il rischio che questo sforzo militare non risolva comunque la situazione. La forza militare è il primo strumento da usare nella lotta al terrorismo, ma se non si risolvono le questioni sociali e politiche che hanno dato vita al radicalismo, si possono uccidere quanti terroristi si vuole, ma ne nasceranno sempre di nuovi”.
Siamo davanti a uno sforzo militare francese molto ingente nel Sub-Sahara che dura da anni. È così?
La Francia dal punto di vista militare è sempre stata presente in questi territori che erano sue ex colonie. L’ultima missione, chiamata Barkhane e lanciata nel 2014, ha ereditato la missione di stabilizzazione in Mali per contrastare la minaccia jihadista del 2011-2012.
Non c’è il rischio che questo sforzo militare prolungato finisca come quello americano in Afghanistan, vent’anni di guerra senza ottenere praticamente nulla?
Assolutamente sì. Questo è un rischio concretissimo, che deve far riflettere non solo il governo francese, ma anche gli altri governi europei impegnati nelle zone a rischio sull’efficacia delle operazioni militari nei teatri di crisi.
In che senso?
Nel senso che lo strumento militare è efficacissimo per affrontare il rischio terroristico, ma da solo non basta a contrastare il radicalismo jihadista.
Perché?
Perché è un fenomeno sociale e politico più ampio di quello militare. Se non si interviene sui fattori originari, i fattori a livello sociale ed economico che alimentano il radicalismo, potremo uccidere quanti terroristi vogliamo, ma ne nasceranno sempre altri.
A proposito, nel Sahara di fatto si è costituito uno Stato islamico, che ha preso il posto di quello insediatosi in Siria. I recenti attentati a Nizza e a Vienna possono in qualche modo essere legati a questa realtà?
Al momento non ci sono abbastanza prove che ci possano permettere di avventurarci in una analisi del genere. Si parla in presenza di dati concreti per avanzare una analisi, altrimenti si fanno chiacchiere da bar.
Però dall’Africa sub-sahariana possono partire terroristi che si inseriscono nei flussi migratori? Pensiamo all’autore della strage di Nizza, che è arrivato in Italia in mezzo a migliaia di altri migranti…
Sì, però il numero delle variabili è amplissimo. Non sappiamo se fosse già radicalizzato prima di partire, se venisse da una famiglia con un parente che aveva militato nello Stato islamico, se fosse un estremista di suo e una volta arrivato qui abbia finito il percorso o se sia arrivato come tanti altri migranti e solo successivamente, nel periodo di residenza, si sia radicalizzato. Può essere venuto in contatto con qualcuno che gli ha messo in testa certe idee, oppure non aver trovato lavoro e sentendosi emarginato si è fatto prendere da frustrazione e rancore. O ancora, in quanto musulmano, dopo il botta e risposta tra Macron ed Erdogan potrebbe essersi sentito offeso, avendo magari un sentimento di religiosità molto forte. Ma sono tutte ipotesi. È un argomento delicato, sono rimaste uccise diverse persone, ci sono due paesi come Francia e Turchia in pesante tensione tra loro, ci sono comunità di fedeli da una parte e dall’altra, non possiamo dunque innamorarci di alcune ipotesi. Non sarebbe rispettoso.
Che ruolo dovrebbe giocare la diplomazia italiana in quella parte di Africa?
Lo stiamo già facendo. Abbiamo aperto nuove rappresentanze diplomatiche nel cosiddetto G5 Sahel. Facciamo parte delle principali missioni europee che operano in quel territorio, abbiamo una missione nazionale in Niger fondata su un accordo bilaterale, supportiamo gli sforzi di tutta la comunità internazionale. Un ruolo non molto pubblicizzato, come non lo è tutta la politica estera italiana da parte dei giornali, ma esiste.
Però tra Francia e Italia non c’è molta concordia in politica estera…
Viviamo in un’epoca in cui sta tornando il multilateralismo e le vecchie alleanze scricchiolano. Si va avanti con dossier punto per punto. In Libia possiamo avere divergenze, ma sul Mediterraneo orientale e sul Sahel abbiamo con la Francia obiettivi convergenti.