Anticipiamo un estratto della relazione che l’autore terrà al Convegno annuale di “Russia Cristiana” (6-7 novembre, visibile in streaming), dal titolo “Una rete che imprigiona, una rete che sostiene, una rete che libera. Rimanere uomini nel tempo di una pandemia social”
… È certo assolutamente corretto dire che la Rete ci soffoca, ma nello stesso tempo dobbiamo riconoscere che ci offre delle possibilità enormi per un nuovo respiro; sarebbe però un’affermazione che rischia di essere ancora molto accademica e astratta, specie se, a fronte di questo neutralismo conciliatore, si considera la sfiducia e la disistima di fondo con cui spesso si scontrano avversari ed estimatori della Rete o, per entrare all’interno degli stessi campi, coloro che in questo tempo di pandemia sostengono che la Rete è stata lo strumento per diffondere un vero e proprio terrorismo psicologico liberticida e coloro che l’accusano al contrario di aver favorito dei comportamenti semplicemente irresponsabili, mascherandoli dietro la scusa di una difesa della libertà personale.
E su questa falsariga si potrebbe proseguire all’infinito in uno sterile scambio di accuse, che non avrebbe soluzione possibile se non ci si soffermasse sulla seconda parte del titolo del nostro convegno: che uomo è minacciato o salvato da questa rete? È la questione fondamentale che ci si impone se andiamo più a fondo e se ci lasciamo sfidare dalle circostanze.
Prendiamo ad esempio la questione del terrorismo che in questi giorni ha di nuovo colpito molti Paesi europei. Rispetto a questi eventi è stato osservato che, anche a prescindere dalla possibile presenza di una regia che sfrutta la Rete, è proprio la Rete stessa in quanto tale, senza bisogno di interventi esterni, a facilitare con un vero e proprio bombardamento informativo il diffondersi di un’atmosfera di settarismo e di odio nella quale poi si possono inserire o possono essere facilitati i gesti di terroristi più o meno isolati, ma comunque caratterizzati da un’intolleranza devastante che guarda all’altro e al diverso riducendolo inevitabilmente ai tratti di un nemico da eliminare senza pietà. È la Rete, si dice, che ingigantisce gli errori e i difetti, presunti o reali, dell’Occidente, fino ad alimentare, da una parte, un odio incontrollabile e, dall’altra, nello stesso Occidente, un senso di colpa paralizzante (si pensi alle polemiche sulle statue di Colombo).
In effetti, anche senza arrivare agli estremi del terrorismo, una paralisi non meno grave è proprio quella prodotta da quel bombardamento informativo cui si è appena accennato e che caratterizza l’attuale pandemia; si è parlato di una vera e propria pandemia informativa, con un eccesso tale di informazioni e di dati che è diventata impossibile qualsiasi verifica, ostacolata dalla diffusione di ogni sorta di stereotipi e dal prevalere di idee semplici che promettono una soluzione rapida a problemi che la stessa sovrainformazione ha contribuito a complicare all’inverosimile, con una conseguenza ancora più grave; come diceva ormai sessant’anni fa Jacques Ellul, uno dei grandi studiosi della propaganda: “Molte informazioni, fatti, statistiche, inchieste, molte spiegazioni, dimostrazioni, analisi eliminano il giudizio personale, la capacità di farsi un’opinione; e oggi riescono in questo scopo con tanta più efficacia di quanto possa farlo la propaganda più sfacciata”.
Di fronte a questa realtà, di fronte alla tragedia di una scomparsa della capacità di giudizio personale che ci rende inermi di fronte alle possibilità manipolatorie della Rete, tutte le osservazioni che si possono fare sul suo carattere in fondo neutrale rischiano di essere travolte dall’alternativa che si rende inevitabile quando l’uomo si trova privato della propria capacità di giudizio: o chiudiamo una Rete che non riusciamo a gestire, ma ci precipitiamo così in una logica che ripugna alla tradizione culturale europea; o ci rifugiamo in una serie di rimedi tecnici che non risolvono affatto il problema e anzi finiscono, anche in questo caso, col censurarne le vere dimensioni.
Possiamo in effetti utilizzare strumenti tecnici per scoprire e denunciare le fake news che diffondono sconcerto o paura, ma a parte che non tutti possono saperli usare o conoscerne l’esistenza, in un mondo globalizzato come il nostro, sarebbe una rincorsa difficilmente sostenibile e, come dicevo, occulterebbe il problema di fondo che è quello di una capacità di giudizio critico sempre più ridotta o, detto in maniera più cruda, il fatto che non esiste menzogna che possa essere creduta se non ha un brodo di coltura nella società nella quale si diffonde.
È proprio questo brodo di coltura che spiega la diffusione delle idee più balzane: tanto più il mondo si fa complesso e tanto più si cercano idee semplici per superarne lo scandalo; l’enorme diffusione che ha avuto in questo periodo la teoria del complottismo si spiega esattamente in questa prospettiva perché esso “consente ai suoi sostenitori di riprendere possesso di un mondo che sfugge loro, di imputare agli altri l’origine dei mali del mondo e di trovare delle risposte semplici a delle questioni complesse”; il complottismo finisce così col prendere il posto delle ideologie e, come queste, ha facile presa perché alla complessità del reale, difficile da tollerare quando non corrisponde alle nostre aspettative immediate, sostituisce la facilità di una spiegazione, di un’idea che, presentandosi con la pretesa di spiegare ogni cosa, toglie ogni scandalo e, illudendoci di aver trovato la chiave della realtà, ci libera dal peso della responsabilità personale: un’idea unica dove tutto è già chiaro sostituisce la realtà irriducibile.
Se la nostra capacità di giudizio è messa in crisi dalla complessità della situazione, “tanto più attribuiamo credibilità a un’informazione o a un’idea quanto più essa corrisponde alle nostre paure o alle nostre angosce o viene a sostenere le nostre idee preconcette”. Questo atteggiamento ci porta a vedere dietro ogni evento un’intenzione, una volontà, e in questo modo, identificando con semplicità un colpevole, un nemico, ci dà l’illusione di dominare una situazione che è più grande di noi, l’illusione di poter vincere il male liberandoci da questo nemico e liberandoci così anche dalle nostre paure.
A questo punto possiamo prendercela fino a quando vogliamo con la Rete o con chi ne sfrutta la neutralità, ma non è lì il problema: la grande facilità con la quale si offre credibilità alle menzogne più sfacciate o alle semplificazioni più inverosimili dipende appunto da questa paura che paralizza il soggetto e lo dispone a credere a tutto, fino a negare la realtà, quando la realtà minaccia l’efficacia e l’utilità di questa spiegazione.
Dietro questo paura paralizzante e dietro questa disponibilità a credere a tutto pur di esorcizzare e superare la paura riprende forza e si rinnova uno dei mali che rischiano di rendere infinitamente debole non un sistema piuttosto dell’altro, ma la stessa umanità contemporanea: si può credere a tutto solo se e quando si rifiuta la verifica della realtà, quando la mancanza di un criterio di verità si trasforma in una sorta di dottrina della doppia verità per cui ci sono delle verità e dei valori che sono indiscutibili per il mio mondo e altre che valgono per il resto del mondo, così che si può tranquillamente decidere di usare il falso per difendere il bene o di tollerare il falso per difendere un bene soltanto mio; ma a questo punto, travolti da questo soggettivismo nichilista che nega tutto, ci viene a mancare la terra sotto i piedi, non abbiamo più nulla su cui fare forza per resistere.
È in fondo la storia delle democrazie occidentali che, a forza di proclamare tale dottrina come la cosa più naturale di questo mondo, erano divenute impotenti di fronte ai totalitarismi del XX secolo. È la storia che ad esempio si è incarnata in un grande uomo politico francese, Edouard Herriot (che fu ministro degli Esteri e anche primo ministro), quando arrivò a negare l’esistenza del Holodomor (la grande carestia degli anni Trenta) pur di non avere ostacoli nella sua politica di avvicinamento all’Unione Sovietica e a Stalin: quando si trattò infatti di giustificare questo atteggiamento non si ebbe alcun pudore a sostenere che “non c’è alcun rapporto tra Stalin, governante di 170 milioni di russi, di cui almeno 100 milioni sono ancora abbastanza primitivi e un governante del nostro Paese. I valori umani, qui e là, non hanno assolutamente la stessa importanza”.
L’esito di questa dottrina e della sua applicazione, per cui la vita dei cittadini sovietici morti in quella carestia non aveva lo stesso valore di un cittadino occidentale, fu la conclusione tragica per cui non valeva la pena “morire per Danzica”, secondo una logica che poi abbiamo sentito ripetere anche in tempi più vicini a noi con un altro slogan famoso: “meglio rossi che morti”. E quanti slogan di questo tipo caratterizzano tante polemiche attuali.
È in fondo il vecchio gioco della propaganda, con una novità che le aggiunge una forza distruttiva mai vista prima: oggi non si tratta più di far prevalere una rappresentazione del mondo rispetto a un’altra rappresentazione (come succedeva e succede nelle classiche contrapposizioni politiche o ideali), e neppure di far prevalere un’idea rispetto alla realtà (come succedeva nel totalitarismo classico), ma di dare a un’idea (magari quella di un complotto) la dignità di un fatto; non è per caso che i nuovi signori del mondo si siano inventati il concetto di fatti alternativi per spiegare e giustificare l’impudente inverosimiglianza di certe menzogne: l’esistenza delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein o l’esistenza di “omini verdi” per nascondere che chi si annetteva la Crimea erano militari russi.
A queste menzogne non è più sufficiente e per certi versi non è più possibile rispondere solo con una pura tecnica di utilizzazione e controllo della Rete o con un’astratta riaffermazione della verità, tanto più se si tratta di una verità astratta, ma occorre riandare al cuore del problema, al soggetto che si serve della Rete; infatti, come diceva Havel commentando lo slogan del pacifismo occidentale degli anni Settanta, “quello slogan è un segnale infallibile che chi parla ha rinunciato alla sua umanità. Perché ha rinunciato alla capacità di garantire personalmente qualcosa che lo trascende e così a quella di sacrificare – in extremis – anche la vita stessa per ciò che dà significato alla vita”, mentre “senza l’orizzonte del sacrificio supremo ogni sacrificio diventa insensato. Quindi per niente vale niente. Niente significa niente. Il risultato è una filosofia di assoluta negazione della nostra umanità”.
Cosa sia poi questo uomo di cui parlava Havel è qualcosa che tocca a ciascuno di noi decidere, non in nome di un relativismo non meno astratto dei nuovi fondamentalismi, ma in nome dell’umiltà del saggio, che onora i limiti del mondo naturale e “il mistero che vi si cela, ammettendo che esiste qualcosa, nell’ordine delle cose, che evidentemente va oltre le nostre competenze” e che secondo una vecchia tradizione si chiama “voce della coscienza”.