“È una conferenza stampa in cui non abbiamo dati aggiornati, la cabina di regia li produce su base settimanale, e verranno prodotti nelle prossime 48 ore. Vogliamo illustrare e condividere gli strumenti che stanno accompagnando questa fase dell’epidemia nel monitoraggio. Siamo in una fase di transizione, dobbiamo intervenire per controllare la diffusione” del virus “per riportarla a velocità più controllata e poter affrontare i prossimi mesi”, ha detto Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità. Che sull’ultimo decreto adottato dal governo Conte, che ha introdotto la divisione delle regioni in tre aree (gialla, arancione e rossa), ognuna delle quali associata a un diverso rischio coronavirus, ha poi aggiunto: “Il nuovo Dpcm si inserisce in un percorso condiviso da Regioni, ministero della Salute e Cts, che si ispira a modelli internazionali e si delinea in un processo in tre fasi”. La conferenza stampa della Cabina di regia, convocata ieri presso il ministero della Salute, doveva servire a fugare dubbi, lamentele e proteste dei governatori, cercando di fare chiarezza sulla metodologia e i criteri utilizzati per creare il “semaforo” delle regioni italiane. Obiettivo raggiunto? Non del tutto, secondo Paolo Berta, ricercatore di statistica nel dipartimento di statistica e metodi quantitativi dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, perché sul tappeto restano ancora diverse perplessità.
Come valuta la conferenza stampa della Cabina di regia?
Partiamo dai due aspetti positivi. Il primo: il fatto che le decisioni vengano assunte attraverso un automatismo dovrebbe porre fine al balletto di responsabilità tra governo centrale e Regioni cui abbiamo assistito in queste settimane. È chiaro che si sono rimpallati la patata bollente di dover prendere decisioni forti, ma impopolari. Il secondo: rispetto a marzo, quando venne deciso un lockdown nazionale generalizzato, ora si adottano misure restrittive differenziate da territorio a territorio. Questo consente di salvaguardare di più le implicazioni economiche che queste misure producono.
Questa è la pars construens della conferenza stampa. Immagino ci sia anche una pars destruens. Quali sono le sue perplessità?
Innanzitutto, la tempestività. Che cosa comporta il fatto di aspettare che una regione, come recita l’ultimo Dcpm, diventi “a rischio massimo”, cioè zona rossa? Visto che si sapeva benissimo quanto fosse esponenziale la crescita dei contagi, anticipare questo, anziché aspettare lasciando libertà di circolazione, quanti ricoveri in meno e quanti servizi in più per altre patologie avremmo potuto ottenere? Non solo: aspettare significa allungare i tempi di flessione della curva, arrecando danni maggiori anche all’economia. Sono tre settimane che sappiamo che Milano avrebbe raggiunto questi livelli di contagio.
La seconda perplessità?
Riguarda la granularità dei dati. Se si vuole pesare meno sull’economia e sulle chiusure delle attività, bisogna definire una granularità corretta e non sono certo che la granularità corretta sia quella regionale piuttosto che provinciale. Sono convinto, per esempio, guardando alla Lombardia, che con Milano, Monza e Varese si è accumulato un notevole e colpevole ritardo. Ben diversa la situazione di Sondrio, di Mantova e in questo momento anche di Bergamo e Brescia. Il sistema a semafori deve essere per forza regionale per riuscire a flettere con maggiore efficacia la curva epidemica? Sappiamo che questo virus circola meno durante l’estate, quindi dovremo imparare a convivere con queste chiusure e aperture almeno fino alla prossima primavera. Ma se vogliamo ridurre il più possibile l’impatto economico, da subito è importante ragionare su automatismi più granulari.
Terzo dubbio?
Il discorso dei dati. È necessario raccogliere più dati per assumere decisioni che siano consapevoli. Una restrizione che non considera il livello di contagio di ciò che si va a chiudere è una chiusura inconsapevole.
Può citare un esempio concreto?
Prendiamo le scuole. Nelle regioni gialle o arancioni le scuole sono in presenza fino alla terza media, in quelle di fascia rossa fino alla prima media. Posso capire la didattica a distanza nelle superiori perché la mobilità degli studenti ha un impatto sui trasporti pubblici, ma le scuole medie sono tendenzialmente scuole di prossimità e in generale non intasano i trasporti pubblici. Senza numeri nessuno può conoscere i criteri in base ai quali il governo ha preso questa decisione. Solo con l’ausilio di numeri puntuali si può capire davvero dove il contagio si manifesta e si diffonde di più o di meno e quindi quali sono servizi, attività e quant’altro che debba essere chiuso oppure no per ridurre la velocità del contagio. Altrimenti si cade nella discussione davvero sterile e un po’ patetica se mettere il coprifuoco alle 21 piuttosto che alle 22 o alle 23. Bisogna raccogliere molti più dati e renderli fruibili alla comunità scientifica.
A proposito di dati, Iss e Cts dichiarano di trattare ogni giorno migliaia di dati, ricevuti dalle Regioni, che poi rientrano nei 21 indicatori elaborati da Istituto superiore di sanità, Comitato tecnico-scientifico e ministero della Salute, di concerto con le Regioni stesse. Secondo lei, su questi numeri c’è sufficiente trasparenza?
Manca la trasparenza. Da quando è scoppiata l’epidemia, a parte l’informazione quotidiana della Protezione civile, la comunità scientifica non dispone di altri dati su cui poter ragionare ed elaborare proposte che siano utili anche per il ministero. Non ho mai sentito governo né Regioni fare affermazioni, in termini di chiusure e restrizioni, supportate esplicitamente da dati.
Secondo Iss e Cts, la griglia dei 21 indicatori, che viene utilizzata da maggio, e l’indice Rt vanno letti nella loro interezza. Non sono una batteria sufficiente per elaborare decisioni consapevoli?
È giusto avere un mix di indicatori tra quanto il contagio si diffonda velocemente, quindi va bene, anche se non basta, l’indice Rt, e la capacità dei sistemi sanitari di reggere l’ondata epidemica. Accolgo anche con favore il fatto che ci si basa su meccanismi automatici. Ho piena fiducia nei componenti di Iss e Cts, che sapranno sicuramente come meglio sintetizzare quei dati per riclassificare i territori nelle diverse fasce, mi resta tuttavia un dubbio, oltre alla questione della granularità, di cui parlavo prima.
Quale?
Essendo una griglia di indicatori disponibile da maggio, bisognava proprio arrivare a una seconda ondata ormai conclamata per assumere queste decisioni? O si poteva, nella gestione dell’epidemia, anticipare tutto ad agosto piuttosto che a settembre? Non siamo in ritardo?
Torniamo sulla granularità dei dati. Le Regioni hanno la possibilità di derogare province o situazioni particolari, adottando misure più restrittive o più permissive. Che ne pensa?
Questo è un aspetto positivo. I lockdown circoscritti e mirati sono la strada migliore per riuscire a mantenere il trade-off tra salvaguardia delle condizioni di salute ed economia.
Ma questo meccanismo non rischia di rimettere in moto il rimpallo di responsabilità tra scienza e politica?
I dati provinciali esistono e li forniscono le Regioni, che li raccolgono e li inviano al ministero e possono quindi adeguare i singoli territori alle indicazioni della comunità scientifica. Ma qui veniamo a un altro punto chiave: il nostro sistema sanitario è decentrato. Non è che si può chiedere maggiore autonomia quando la situazione è sostanzialmente serena e poi venir meno a questa richiesta di autonomia demandando al governo centrale le decisioni più difficili in situazioni di crisi come questa. Sono proprio questi i frangenti in cui le Regioni devono dimostrare la capacità di assumersi questa autonomia come responsabilità.
La Campania è una regione gialla perché, pur avendo un alto numero di contagi, mostra un Rt più basso di Lombardia e Calabria. L’indice Rt, che è un indice di tendenza, viene dunque utilizzato per prendere decisioni tempestive?
Questo criterio viene utilizzato per la prima volta solo adesso. Non abbiamo ancora alcuna evidenza sul fatto che si potesse fare meglio. Credo che la decisione su Milano potesse essere assunta in anticipo, garantendo maggiore efficacia e minor tempo per contenere l’epidemia. Più si aspetta, più ci vuole tempo per svuotare gli ospedali.
Oggi usciranno i dati epidemiologici aggiornati a fine ottobre, mentre il 24 ottobre il governo aveva adottato un Dpcm con alcune misure restrittive. Molti governatori lamentano il fatto che i dati utilizzati per stabilire le diverse zone sono vecchi di 10 giorni, un lasso di tempo, tra l’altro, necessario per far emergere gli eventuali effetti mitigatori delle misure adottate. Perché governo, Iss e Cts non hanno aspettato per vedere se e come nel frattempo è cambiato lo scenario dell’epidemia?
Credo che i Dpcm emanati nelle ultime tre settimane prima dell’ultimo, davvero stringente, fossero decreti che cercavano di rimandare le decisioni più complicate. Non si era in sostanza convinti dei risultati attesi.
Da statistico esperto di politica sanitaria, sulla raccolta e diffusione dei dati all’opinione pubblica, al di là di una tamponatura più massiccia, non stiamo ripetendo gli stessi limiti ed errori commessi da febbraio in avanti? La prima ondata non ci ha insegnato niente?
A mio avviso c’è una differenza. Guardando alle serie storiche dei dati forniti tutti i giorni dalla Protezione civile, nella prima ondata si comincia il 24 febbraio, quindi manca, perché allora non c’era tracciamento, la fase iniziale di diffusione dell’epidemia. Questa seconda ondata invece fa registrare a luglio-agosto la sua insorgenza con un leggero rialzo dei contagi. In questo senso, lo ripeto, questa ondata era più controllabile, perché si nota perfettamente dai grafici quando l’andamento cambia direzione. Ma a mancare soprattutto sono i dati che possono spiegare come il virus si diffonde, attraverso quali meccanismi e quali attività.
(Marco Biscella)