Più grandi della fatica (e del Covid)

In questo periodo di seconda ondata di contagi sembrano mancare ambiti che spingano ad allargare lo sguardo oltre se stessi.  Il commento di GIORGIO VITTADINI sul QN

Nel 1987 Margaret Thatcher sostenne che “La società non esiste. Esistono gli individui, gli uomini e le donne, ed esistono le famiglie. E il governo non può fare niente se non attraverso le persone, e le persone devono guardare per prime a se stesse”.

Sembrerebbe la fotografia di quanto sta accadendo e ci viene richiamato da più parti in questi mesi di emergenza: tutto dipende dal nostro personale comportamento e i protagonisti di ciò che avviene (oltre al virus) siamo noi e il governo.



In questi giorni di ritorno a misure più stringenti per contrastare la pandemia, mi sono chiesto in quanti abbiano provato almeno una volta l’esperienza del distanziamento, non solo come una necessità, per quanto forzata, ma come paura – o addirittura realtà – di una vita senza relazioni, come pratica di individualismo di massa in cui l’altro è, alla fine, un nemico.



Manca qualcosa, forse perché stava venendo meno anche prima: mancano comunità in cui “trafficare” vita, in cui esserci gli uni per gli altri, in cui essere sfidati a crescere e a desiderare. Non ghetti protettivi, ma stimoli che rimettano in azione, che ci facciano sentire addosso qualcosa di più grande del male, del dolore, più grande della fatica, più grande dello smarrimento, più grande della noia. Così che diventi molto più difficile dire “io” senza dire “noi”.

Ambiti che, in altre parole, spingano ad allargare lo sguardo. E allora, anche se non abbiamo risolto i nostri bisogni, può succedere che ci accorgiamo di più di quelli degli altri. E non possiamo stare fermi: vogliamo interessarcene facendo il possibile, ma tutto il possibile, per dare una mano dove ce n’è bisogno, materialmente e spiritualmente.



La storia ha già mostrato a sufficienza quanto l’ex “lady di ferro” si sbagliasse: il bene comune non è la somma di beni individuali.

E non è nemmeno il compromesso, garantito dallo Stato, tra pluralità autoreferenziali. È invece una dimensione organica, continuamente ricercata e costruita, di progetti ideali e operativi generate dalle realtà di base, che oggi più che mai vanno ricostituite.

Ma perché questo accada va ricostruita una mentalità.

Un’amica, medico di base, mi ha scritto: “La maggior parte delle richieste dei miei pazienti di fare il tampone sono inappropriate. Si aspettano certezze dal tampone, ma penso che la certezza di cui abbiamo più bisogno tutti sia quella che viene dall’accettare che la salute e la vita non ci appartengono”. Non apparteniamo a noi stessi, siamo relazione non solo con un mistero, ma con tutto quello che ci circonda.

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