Mentre la Legge di bilancio si appresta ad approdare in Parlamento, prosegue il dibattito sulla riforma delle pensioni, riacceso anche dalla recente presentazione del Rapporto annuale dell’Inps. Con l’intervista a Madia D’Onghia, Professoressa ordinaria di Diritto del lavoro all’Università di Foggia, continua il percorso a cura del Dipartimento Lavoro e Welfare della Fondazione per la Sussidiarietà volto a offrire ai lettori di questo giornale un contributo di comprensione e di giudizio sull’assetto del sistema pensionistico.
In vista dell’approvazione della Legge di bilancio si è riaperto il dibattito sulle politiche previdenziali e Quota 100 ne costituisce uno dei capisaldi. Che valutazione dà di questa misura? Risponde a esigenze reali?
La valutazione non è affatto positiva, sia per il metodo utilizzato, sia per gli effetti concreti che la misura genera sull’ordinamento previdenziale. Sul primo versante, non condivido la scelta del legislatore del 2019 di essersi limitato a un approccio minimalista, piuttosto che ripensare in toto le regole dell’ordinamento previdenziale; sul secondo versante, la misura è troppo sbilanciata verso chi è già prossimo alla pensione trascurando completamente chi ha difficoltà a maturare i requisiti per accedervi. Più che un canale di prepensionamento, la “quota 100” si configura, in concreto, come un privilegio temporaneo, a vantaggio degli interessi solo di alcune categorie, senza una reale visione della tenuta complessiva del sistema pensionistico attuale e delle future generazioni. Peraltro sono anche molto modesti gli effetti collegati all’ulteriore obiettivo che tale misura si pone, ovvero quello di agevolare il ricambio generazionale nei posti di lavoro (secondo le ultime stime su 100 anziani usciti sono entrati 42 giovani).
La pandemia ha influito sulla sua funzione e utilità?
L’emergenza pandemica ha aperto nuovi e drammatici scenari, specie sul fronte occupazionale, e il ricorso alla “quota 100” potrebbe rappresentare una modalità per ridurre i licenziamenti che la crisi economica sta determinando (o determinerà un volta eliminato il blocco dei licenziamenti per motivi economici). E questo realizzerebbe una sorta di eterogenesi dei fini: da strumento finalizzato (non solo) a creare una nuova occupazione, diventerebbe uno strumento per ottenere una minore disoccupazione, grazie proprio all’erogazione di un “reddito previdenziale”. E, così, ancora una volta, il sistema previdenziale finirebbe per essere utilizzato come ammortizzatore sociale per gestire le eccedenze di personale. Resta sempre, però, il problema della sostenibilità della spesa pensionistica, che continua ad aumentare anche a causa della “quota 100”, come testimoniato dai dati riportati nel XIX Rapporto Inps (presentato lo scorso 29 ottobre), secondo cui, nel triennio 2019-2021, la misura ha determinato un sostanziale incremento del numero di pensioni in rapporto al numero di occupati.
Quota 100 scade a fine 2021 e qualcuno parla della necessità di superare lo “scalone” che ne conseguirebbe, cosa ne pensa? Occorre un’altra misura di pensionamento anticipato?
In una prospettiva di lungo periodo e di complessiva ridefinizione delle regole del nostro sistema previdenziale, non ritengo affatto utile proseguire lungo la strada dei pensionamenti anticipati, non fosse altro che per la pericolosa incidenza di tali misure su due delicati equilibri, quello finanziario e quello intergenerazionale. Sul piano finanziario, perché la sostenibilità economica di tali scelte viene per lo più risolta (così è stato per “quota 100”) attraverso la costituzione di fondi ad hoc, quindi finanziamenti erariali “a debito” (non essendoci la completa copertura contributiva), al di fuori, dunque, degli schemi consueti. E ciò si riflette inevitabilmente sul secondo profilo, in quanto si fa ricadere sulle generazioni future il costo di tale scelte. Peraltro, persistere lungo questo percorso evidenzia un altro limite di fondo.
Quale?
Quello di preferire soluzioni espulsive dei lavoratori anziani, piuttosto che orientarsi verso l’adattamento delle condizioni di lavoro ai loro bisogni. Non è, infatti, più rinviabile un cambiamento, prima ancora che delle regole, della cultura che favorisca il cosiddetto invecchiamento attivo e che rovesci completamente l’immagine dell’anziano, valorizzandone capacità e competenze invece di sottolinearne costi sociali e improduttività. E forse il mondo nuovo che si sta prospettando con la pandemia potrebbe rappresentare uno straordinario acceleratore in tale direzione.
Il tema caldo del dibattito è, dalla legge Fornero, l’età pensionabile, oggi a 67 anni, destinati ad aumentare indefinitamente per via dell’adeguamento automatico alla speranza di vita. Andremo in pensione tutti a 70 anni e oltre? L’ordinamento previdenziale legittima una simile dinamica?
L’innalzamento continuo dell’età di vecchiaia (peraltro in età fissa) non mi sembra di grande coerenza con il nostro ordinamento, a partire dal fatto che si tratta di una regola che difetta per astrazione dalla realtà, dove non vi è una necessaria correlazione tra aumento della vita attesa e longevità (ovvero invecchiamento in buona salute psico-fisica). Non si può dimenticare che esiste anche la cosiddetta vecchiaia patologica, che registra un deterioramento dello stato funzionale delle condizioni di vita. Non solo. L’aspettativa di vita è differente per genere, così come esiste la cosiddetta mortalità differenziale, per ragioni territoriali, di reddito, ecc., e non tenerne conto rischia di creare disuguagliane sostanziali e, dunque, di produrre effetti negativi sul piano dell’equità. Ma è soprattutto la prospettiva di una vecchiaia operosa e faticosa indifferentemente imposta a tutti, in ragione, prevalentemente, di un’esigenza di sostenibilità finanziaria che rende irragionevole una tale scelta che finisce anche per acuire un sentimento di ingiustizia (quasi una sorta di “tradimento” da parte dello Stato) per la rottura di promesse previdenziali da molti ormai ritenute acquisite.
Nel sistema pensionistico esiste un conflitto tra generazioni, un problema di equità o solidarietà intergenerazionale?
Le pensioni sono state definite il “simbolo” di una lettura intergenerazionale delle politiche sociali, proprio perché la tecnica previdenziale (quella a ripartizione) è costruita su un gioco relazionale tra generazioni: chi lavora paga le pensioni di chi ha lavorato in precedenza e si aspetta che i lavoratori successivi facciano lo stesso con lui. Ciò impone necessariamente una solidarietà tra chi ancora lavora e chi ha già lavorato. Appare evidente che il perseguimento di un qualsiasi progetto di eguaglianza sostanziale di tipo intra-generazionale (cioè tra gli attuali pensionati) deve comunque considerare la sostenibilità di progetti futuri, per garantire l’eguaglianza sostanziale anche in una prospettiva inter-generazionale e di questo non sembra farsi sufficientemente carico il legislatore.
In che modo si potrebbe perseguire l’obiettivo dell’eguaglianza intra-generazionale?
L’imposizione di un contributo di solidarietà o il tetto a pensioni elevate mi sembrano operazioni legittime (sia pure entro determinate coordinate) e quanto mai necessarie, anche in ossequio alla categoria dei doveri, in specie quelli costituzionali, configurandosi, cioè, un dovere della generazione attuale verso quelle future in base al principio solidaristico contenuto nell’art. 2 Cost. Mi vengono qui in mente gli insegnamenti di un grande Maestro, Luigi Mengoni, il quale (nel 1998) ci ricordava che «La solidarietà non è tanto una virtù morale […], quanto un principio giuridico oggettivo complementare del principio di uguale trattamento enunciato nell’art. 3. L’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge non è completa se non viene integrata dal dovere solidale di tutti di sobbarcarsi, in proporzione delle proprie possibilità, al peso comune costituito dai costi dallo stare insieme in società».
L’Ue (ma anche l’Ocse) ha evidenziato la necessità di ridurre la spesa pensionistica italiana considerata elevata in rapporto al Pil. I sindacati, e non solo, sostengono la necessità di separare assistenza e previdenza. Dovrebbero anche partire i lavori di una commissione tecnica sul tema. Pensa che sia possibile arrivare facilmente a questa separazione? Quali effetti avrebbe nel caso?
Sono anni che si discute in Italia della necessità di separare nettamente la previdenza dall’assistenza, per avere un bilancio più chiaro e un quadro preciso delle voci di spesa anche nella contabilità internazionale, cioè quella che viene poi utilizzata dall’Ocse o dal Fmi per valutare la solidità finanziaria di un Paese. Separare nella contabilità la previdenza dall’assistenza servirebbe, cioè, a correggere alcuni dati falsati secondo cui l’Italia spenderebbe troppo per le pensioni e troppo poco per il welfare familiare o i sussidi agli anziani. In tal modo si contrasterebbe più efficacemente la pressante richiesta dell’Europa al nostro Paese «di attuare pienamente le passate riforme pensionistiche al fine di ridurre il peso delle pensioni di vecchiaia nella spesa pubblica» (così è, riportato, ad esempio, nelle Raccomandazioni del 2019). In effetti, nel nostro ordinamento c’è una continua commistione tra spesa assistenziale e spesa pensionistica “pura”, ma allo stesso tempo vi sono anche molte prestazioni previdenziali poste a carico della fiscalità generale, quando la contribuzione versata risulta insufficiente. La questione, dunque, è molto più complessa e il dibattito andrebbe spostato, semmai, su un piano più generale, di effettività delle tutele (assistenziali e previdenziale).
Cosa intende dire?
Al di là del dato contabile, cioè, resta il problema di non pregiudicare il futuro previdenziale dei giovani, sempre più esposti al rischio di carriere discontinue e spesso di bassi salari, per i quali si pone la questione fondamentale di evitare che non abbiano più la garanzia di una pensione adeguata. Ripristinare tale garanzia implica ripensare l’attuale assetto pensionistico, anche con l’introduzione di correttivi al metodo contributivo e, analogamente, sul fronte assistenziale, assicurare efficaci e durature misure di sostegno alle persone più vulnerabili. Resta fermo, in ogni caso, un dato imprescindibile: ciò che determina dimensioni ed efficacia delle tecniche scelte per attuare la tutela previdenziale (dei pensionati di oggi e quelli del futuro) e quella assistenziale, qualsiasi esse siano, è sostanzialmente la base sociale, economica e del lavoro. È quindi inutile “accanirsi” sulle regole o su mere operazioni contabili (di separazione tra assistenza e previdenza) se non si predispone un’azione seria e strutturale sui presupposti della loro effettività sostanziale (e, cioè, rilanciare l’economia, realizzare politiche per il lavoro di qualità, contrastare la precarietà e l’abbattimento dei salari, porre in essere un serio e strutturale piano di investimenti in servizi sociali).