Nei documenti preliminari predisposti per la redazione delle linee guida per l’utilizzo delle risorse del Recovery fund, il Governo riconosce che una condizione essenziale per rendere sostenibile il debito pubblico e la spesa sociale è quella di incrementare il tasso di occupazione nel mercato del lavoro italiano, per avvicinarlo alla media Ue superiore di circa 10 punti, per un equivalente, a parità di popolazione, di 3,8 milioni di posti di lavoro. Ma è altrettanto noto, almeno per coloro che seguono con attenzione le dinamiche dell’occupazione, che le condizioni per ottenere questo risultato sono quantomeno ardue, peraltro peggiorate in modo consistente nel corso dell’ultimo decennio per gli aspetti quantitativi e qualitativi del nostro mercato del lavoro, caratterizzato da un rilevantissimo sottoutilizzo delle forze lavoro.
Per valutare questo fenomeno gli esperti utilizzano diversi indicatori: il richiamato tasso di occupazione, cioè l’entità delle persone che lavorano in rapporto a quelle in età di lavoro, quello della disoccupazione che stima la quota di coloro che dichiarano di cercare attivamente un lavoro, le forze lavoro potenziali che sommano ai disoccupati le persone inattive che dichiarano di essere interessate a cercare il lavoro a determinate condizioni. A questi indicatori principali ne vengono aggiunti altri tre: quello dei lavoratori sottoccupati costretti a lavorare con orari settimanali ridotti rispetto a quelli desiderati, l’entità delle persone utilizzate in mansioni inferiori al titolo di studio posseduto, e di quelle che emigrano in altri Paesi per la ricerca di migliori opportunità lavorative. Le analisi effettuate dall’Istat e dall’Eurostat sul periodo che va dal 2008 al 2018 ci aiutano a comprendere l’entità di questi ritardi.
Il nostro mercato del lavoro ha recuperato con grande fatica il numero degli occupati, i 23 milioni registrati nel 2008, ma con una perdita significativa di 1,2 milioni di lavoratori con qualifiche medie o elevate, metà dei quali autonomi, compensata da un’analoga crescita di occupati con bassa qualificazione e di addetti al commercio e i servizi. Nel decennio, la distanza rispetto al tasso di occupazione medio dei Paesi Ue è aumentata da 7 a 10 punti e quella del tasso di disoccupazione di oltre 3 punti. Altrettanto sono cresciuti gli squilibri interni di età, genere, e territorio, che continuano a essere una caratteristica peculiare del nostro mercato del lavoro. Il divario rispetto alla media Ue aumenta a 12 punti per quello delle donne, a 17 per i giovani under 35 e a 16 per le aree del Mezzogiorno. Quest’ultimo dato influenzato dall’ulteriore ampliamento del divario interno, di oltre 600 mila occupati, nel confronto con le aree del Nord Italia.
Alla crescita del numero dei disoccupati, 2,5 milioni di persone in cerca di lavoro nel 2019, si aggiunge quella, stimata in 2,6 milioni, delle persone inattive scoraggiate o che dichiarano di essere disponibili a cercare lavoro a determinate condizioni. Composta per la maggior parte da donne e da giovani che non studiano e non lavorano, con bassi livelli di istruzione.
La crescita dei lavoratori dipendenti (+800 mila unità) viene del tutto assorbita dall’aumento di 1 milione a part-time di tipo involontario. Buona parte dei quali a termine ed essenzialmente concentrati nei comparti dei servizi. I lavoratori a orario ridotto rappresentano oltre il 50% degli occupati nella sanità e assistenza privata, nei servizi alle persone, negli alberghi e nella ristorazione, e circa il 40% nel commercio e nei servizi per le imprese. Con riflessi particolarmente negativi sugli occupati immigrati, dove la quota dei part-time involontari equivale al 75% sul totale dei rapporti a orario ridotto. Il valore delle ore non lavorate da parte dei lavoratori coinvolti nei part-time involontari equivale a circa 450 mila posti di lavoro a tempo pieno.
Sono 5,5 milioni, tra i quali il 33% dei laureati e il 36%dei diplomati, gli occupati impegnati in mansioni ritenute al di sotto dei titoli di studio acquisiti. Nel decennio analizzato si è triplicato il numero dei giovani emigrati alla ricerca di migliori opportunità lavorative in altri Paesi, sino a raggiungere la quota annua di 120 mila nel 2018, e di quelli che dichiarano di prendere in considerazione tale opportunità.
Tutte le criticità evidenziate sono destinate ad aumentare in modo significativo per gli effetti economici dell’emergenza sanitaria in corso. La somma dei disoccupati e degli inattivi scoraggiati nel primo semestre dell’anno in corso è ritornata sull’apice dei 6 milioni registrati nel 2016, in uscita dalla precedente crisi economica. Ed è ragionevolmente destinata ad aumentare quando finirà il blocco normativo dei licenziamenti. Le previsioni più ottimistiche per l’Italia traguardano il recupero delle perdite sul Prodotto interno lordo al 2024. In queste condizioni il problema principale diventa quello di contenere al massimo le perdite occupazionali e di evitare un impatto sociale devastante destinato ad avere ripercussioni politiche per il conflitto, già in corso, tra i ceti sociali più esposti al rischio di perdere il lavoro e il reddito rispetto a quelli più garantiti. Che una parte rilevante del ceto politico si predispone ad assecondare con un’ulteriore dose di sussidi destinata a distorcere l’utilizzo delle risorse disponibili.
Ma non può essere questa la soluzione. Le scelte che saranno fatte nei prossimi due anni condizioneranno l’andamento dell’economia del decennio in corso. In via teorica, per il nostro Paese esistono forti margini di crescita della produttività e dell’occupazione in molti comparti dei servizi, che in precedenti articoli abbiamo cercato di mettere in evidenza. Gli impatti delle tecnologie digitali possono rivoluzionare le organizzazioni del lavoro, consentendo di ridurre in modo consistente le aree caratterizzate da quote rilevanti di lavoro sommerso, di migliorare la qualità delle prestazioni professionali e di aprire un ciclo di parziale recupero della distanza che ci separa dalla media del tasso di occupazione dei Paesi Ue.
Sul piano quantitativo occorre una capacità di generare, al netto del recupero delle ulteriori perdite di occupazione nel breve periodo, un saldo positivo annuale di almeno 400 mila occupati per il resto del decennio in corso. Un obiettivo possibile se a livello di sistema, partendo da una cruda analisi della realtà, vengono mobilitate le energie per rendere disponibili le risorse umane imprenditoriali, tecniche e professionali in grado di pilotare questo cambiamento. E che, in parallelo, tale sforzo sia accompagnato da iniziative volte ad adeguare le competenze anche per i profili caratterizzati da lavoro esecutivo e manuale.
Mentre mi accingevo a scrivere l’articolo, mi è capitato di leggere una dichiarazione della ministra del Lavoro Catalfo che annunciava l’intenzione di introdurre nuove norme per contrastare la diffusione del part-time involontario. L’emblema di una classe dirigente che pensa di risolvere i problemi a colpi di decreto, alla ricerca di pretesti per erogare sussidi, e di una deriva parassitaria che, a suo modo, offre un’ulteriore spiegazione per i nostri ritardi.