La pandemia ci porterà a una “nuova Europa”? L’accordo tra Parlamento e Commissione europea induce a sperare che il Next Generation Eu , di cui il Resilience and Recovery Fund (Rrf) è parte integrante, verrà varato, anche se non necessariamente nei tempi auspicati dal Governo italiano, e sarà il grimaldello per dare capacità impositiva all’Unione europea in aggiunta a quella dei singoli Stati dell’Unione. Questo sarebbe un aspetto fondamentale della “nuova Europa”. Gli altri potrebbero essere nuove regole per il funzionamento dell’unione monetaria (cruciali per 19 dei 27 Stati membri dell’Ue) e del mercato unico (essenziali per tutti i 27). Lo scoppio della pandemia ha causato la sospensione delle regole per l’unione monetaria (i parametri relativi ai saldi di bilancio e al debito delle Pubbliche amministrazioni del Trattato di Maastricht e degli accordi europei sulla crescita e sulla stabilità) e l’introduzione di un regime temporaneo per le regole relative alla concorrenza e, quindi, agli “aiuti di Stato”.
Andiamo con ordine. La “sospensione” dei parametri relativi all’unione monetaria, inizialmente stabilita sino al 31 dicembre 2020, è stata prorogata sino al 31 dicembre 2021, ma il Commissario competente per la materia, Paolo Gentiloni, in seguito alla seconda ondata della pandemia, sta già parlando di un’ulteriore differimento al 30 giugno o al 31 dicembre 2022. Il tema è complesso perché agli originali parametri del Trattato di Maastricht relativi ai tassi d’interesse, all’indebitamento annuale netto delle Pa, allo stock di indebitamento in rapporto al Pil, se ne sono via via aggiunti altri, ma anche eccezioni e deroghe. Adesso, la matassa è tale che assomiglia alla “questione d’Oriente” della fine dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento (l’assetto degli Stati europei, dagli incerti confini, nati sulle ceneri dell’Impero Ottomano), questione che portò all’attentato di Sarajevo e alla Prima guerra mondiale. All’epoca, si scherzava dicendo che la materia era così ingarbugliata che solo tre persone la comprendevano a pieno, ma uno era morto, un altro impazzito e il terzo aveva perso la memoria. Un “gruppo di riflessione”, all’interno della Direzione Generale Affari Economici e Finanziari della Commissione, sta cercando di dipanare la materia e di formulare una proposta da presentare ai rappresentanti degli Stati membri dell’unione monetaria.
Alcuni Stati si stanno già muovendo in incontri informali; ad esempio, Parigi chiede che le spese per investimenti vengano scorporate dal parametro relativo all’indebitamento netto. È tema che interessa anche l’Italia. Il “parametro” più complesso, specie per il nostro Paese, è quello del debito: a causa della pandemia e delle spese in deficit, sia per portare sollievo ai più colpiti, sia per rilanciare produzione e occupazione, a fine 2021 il rapporto tra debito delle Pa e Pil raggiungerà circa il 170%, mentre il parametro di Maastricht afferma che non deve superare il 60% e il Fiscal compact del 2012 richiede che il differenziale debba essere ridotto ogni anno di un ventesimo sino a raggiungere l’obiettivo comune. Lo stesso European Fiscal Council ha alzato la voce per sostenere che un parametro che obblighi il debito a non superare il 60% del Pil non ha logica economica. Trent’anni fa venne definito in modo piuttosto rozzo, sulla base della media dell’indebitamento in rapporto al Pil degli Stati che volevano fare parte dell’unione monetaria. Lo stesso Fondo monetario internazionale afferma che il debito si considera “sostenibile” sino a quando il tasso di crescita del Pil supera il tasso d’interesse. Si sta riflettendo su un parametro che faccia riferimento a un “obiettivo a lungo termine”, con relativo monitoraggio; l’obiettivo sarebbe maggiore rispetto al 60% del Pil e guarderebbe molto al denominatore, ossia al tasso di crescita.
Una proposta è stata lanciata cinque anni fa dall’economista francese André Grjebine nel libro La dette publique et comment s’en débarrasser: désendetter les États européens sans compromettre la croissance, c’est possible! (Presse Universitaire de France,2015). La rilanciò di recente, a doppia firma con Paul De Grawe ora alla London School of Economics, dalle colonne di Le Monde. Consiste essenzialmente nell’annullamento, più o meno mascherato, da parte della Banca centrale europea dei propri crediti nei confronti delle Banche centrali nazionali dell’Eurosistema.
Dal 2015 a fine settembre 2020, la Bce ha acquistato circa 3.000 miliardi di euro di debiti pubblici ed entro la fine del 2020 potrebbe aver acquisito 400-500 miliardi di titoli pubblici italiani. Ebbene, se la Bce annullasse un suo credito non danneggerebbe nessuno, perché quel passivo non è rivendicabile da alcuna entità. Nel 2013, la Banca dei regolamenti internazionali pubblicò un rapporto nel quale sottolineava che una banca centrale può benissimo avere mezzi propri negativi. Non si tratterebbe di annullare formalmente i debiti, ma di trasformarli in una rendita perpetua che la Bce deterrebbe nei confronti degli Stati a tassi di interesse nulli o quasi.
Questa via d’uscita, però, non è nell’ambito delle competenze della Commissione europea, ma della Bce. Inoltre, dovrebbe superare le probabili obiezioni, oltre che degli “rigoristi” e delle loro Banche centrali nazionali, anche quelle della Corte Costituzionale tedesca, che vigila sulle implicazioni delle misure europee che possano incidere sulla finanza della Repubblica federale. Occorrerebbe un’azione diplomatica molto astuta da parte della Banca d’Italia.
In materia di mercato unico, la disciplina sugli aiuti di stato non è stata abrogata, ma è stato introdotto un “quadro temporaneo” sino al 31 dicembre 2020, recentemente esteso sino al giugno 2021 che riguarda anche la ricapitalizzazione delle imprese le cui esigenze potrebbero manifestarsi anche dopo la fine della crisi. Nei corridoi di Bruxelles, in effetti, si mormora di un’eventuale estensione sino a metà 2022. Oltre alle infrastrutture e la produzione di beni necessari a contrastare il Covid-19 (tra cui il differimento del pagamento delle imposte e dei contributi previdenziali), gli “aiuti di stato” vengono e verranno concessi se corrispondono ai principali obiettivi di politica industriale europea come la transizione ambientale e digitale.
Resteranno alcune condizioni stringenti agli aiuti per la ricapitalizzazione delle imprese: divieto di dividendi e riacquisto di azioni sino a quanto lo Stato non sarà completamente uscito dal capitale, divieto di pagamento di bonus e di sovvenzioni incrociate, nonché di acquisto di più del 10% di azioni di concorrenti o di operatori (a monte o a valle) nella stessa linea di attività, remunerazione allo Stato per i rischi che assume. Insomma, una strada stretta, come quella seguita dalla Germania trent’anni fa nella ricapitalizzazione e rilancio delle imprese nei Länder dell’Est. Allora, come adesso in quello per le imprese più colpite dalla crisi, l’intervento per la ricapitalizzazione è temporaneo (non più di quattro anni) ed esclude la nomina di rappresentati della mano pubblica in organi di indirizzo o di gestione.
La “nuova Europa” che si sta delineando avrebbe quindi nuovi parametri per i saldi di finanza pubblica e forse una soluzione per il debito nei confronti della Bce imputabile alla pandemia e regole meglio focalizzate ma più rigorose per gli aiuti di Stato.