Falqui, basta la parola. Ma se non si tratta del celebre confetto anti-stitichezza del vecchio Carosello? Non basta la parola. Puoi dire stati generali invece di congresso, capo politico invece di segretario, garante invece di presidente, comitato operativo invece di esecutivo centrale, e via discorrendo… e allora Falqui non c’entra e vale l’altro vecchissimo adagio: se non è zuppa è pan bagnato. Quanto andato in scena negli Stati generali del Movimento 5 Stelle non è solo una resa dei conti per stabilire chi comanda, dopo gli alti vertiginosi e i bassi deprimenti delle varie tornate elettorali degli ultimi sette anni. È anche, e forse soprattutto, il sintomo che il modello di partito digitale è alle forche caudine di una verifica seria. Il conflitto tra Casaleggio e Di Maio e C., cioè tra il potere digitale e il potere politico, lo certifica in maniera plateale.
Come noto, il Movimento 5 Stelle è nato come partito digitale dall’idea di un genialoide personaggio da Silicon Valley in versione italiota, Gianroberto Casaleggio. L’idea aveva due capisaldi. Il primo: che la rete poteva costituire lo strumento di una vera democrazia, di una democrazia diretta liberata dalla casta, costosa e ingombrante, delle burocrazie di partito e dei politici di professione. La seconda: che occorresse un istrionico imbonitore per dare avvio alla start-up, uno che sapesse intercettare l’attore di questo disegno: la nuova massa dei connessi in internet, attivi sui social e per lo più deprivati dalla crisi economica della speranza dell’ascensore sociale (furono le piazze del vaffa). Poi è successo che i 5 Stelle sono andati al potere mentre l’imbonitore si è defilato e l’ideologo della rete è morto, lasciando al figlio la società ma non il carisma.
Bisogna riconoscere che la nascita del Movimento 5 Stelle coincise con il tentativo di dare una risposta allo scollamento sempre più vistoso dei cittadini dalla politica e dalle istituzioni. La crisi del partito di massa è roba di trenta e più anni fa. Berlusconi ha poi inaugurato il partito televisivo del leader, con un modello che tutti hanno rincorso, ma che non ha retto alla crisi economica scoppiata nel 2007-2008. Il terzo tentativo è appunto quello del partito digitale: Movimento 5 Stelle in Italia, Podemos in Spagna, France Insoumise in Francia, ecc.
Stando al caso italiano il modello, in breve tempo, sembra aver mostrato la corda. Il potere è rimasto in mano alla leadership, trasmigrando – ecco lo snodo attuale – dalla leadership cibernetica alla leadership politica nel senso tradizionale. Nell’uno è nell’altro caso la volontà popolare si è espressa non come democrazia diretta, ma come democrazia reattiva (come è stata definita per esempio da Paolo Gerbaudo): i processi decisionali sulla piattaforma sono quasi sempre ridotti alla forma referendaria sì/no, e i risultati sono quasi sempre stati un plebiscito per il vincitore precostituito. Di Maio come capo politico ha avuto trentamila voti, il secondo classificato 3.500. C’è qualcosa che non convince.
Un altro elemento notevole è che il partito digitale si qualifica per il metodo democratico, la procedura, e non per un’ideologia. Questo dà ampia libertà di manovra, nel valzer a 360 gradi delle alleanze, che serve per stare al potere, e nel cambio di obiettivi (No Tav addio, ecc.) che serve per rimanerci, al potere; ma che non può trovare in eterno l’adesione degli elettori.
Il rifiuto di un’ideologia qualsivoglia è coessenziale al modello di movimento di Casaleggio. Esso corrisponde al suo nucleo centrale, quello della democrazia diretta, che si ispira al filosofo ginevrino Jean Jacques Rousseau, cui non a caso è intitolata la famosa piattaforma digitale, ora finita nel tritacarne del contendere.
Detta in soldoni e per non farla lunga, l’idea di Rousseau è che la società esiste per un patto originario, implicitamente sottoscritto da chiunque viene al mondo. La società in questo modo è per se stessa la forma del bene comune generale. Ogni individuo morale (occhio a questa parola: gli onesti…) è naturalmente partecipe di questa volontà buona. Sono le consorterie, i gruppi particolari di interessi, le associazioni – potremmo dire oggi i corpi intermedi – che introducono la corruzione. Ogni vicenda, ogni storia particolare, è nemica del bene comune (basti segnalare qui che nel cristianesimo è esattamente il contrario). Per l’ideologia rousseauiana è l’insieme degli individui isolati – oggi interconnessi – che esprime necessariamente la volontà generale, la quale è per ciò stesso buona e giusta. Ecco l’origine della democrazia diretta come soluzione. Una democrazia di individui isolati, senza una concezione esplicita della vita, senza un’ideologia di qualsiasi genere, senza intermediazione (se non quella opaca e sottaciuta di chi controlla la rete e le piattaforme). Tutto ridotto alla procedura.
E la fatica di pensare? Di incontrare gli altri, di associarsi per un fine particolare ma buono? Di dare un contributo al bene comune consapevoli che la propria posizione è la posizione di una parte e che l’apertura al tutto, agli altri, è necessaria apertura al diverso e non fa della mia posizione la totalità da imporre? La democrazia nasce da un soggetto umano desideroso di rapporti giusti fra tutti, che favoriscano l’espressione della singola personalità (vedi Costituzione italiana), si sviluppa come dialogo tra posizioni che hanno una identità e di una concezione che si esplicita, che non vuole mai prevaricare e che spinge per una società in cui l’ideale della comunione di intenti è innanzitutto sperimentabile in comunità intermedie e in cui il bene da garantire politicamente si chiama pluralismo. Parola che la rousseauiana volontà generale ignora, come nella tradizione giacobina, e anche nel suo travaso nella tradizione marxista in cui il partito di una classe si pretendeva interprete incontestabile di tutta la nazione. Partito indica pur sempre una parte. Ed è fondamentale in democrazia che più che espressione consapevole di una parte non voglia essere.