L’immagine che illumina la situazione è quella di Mirella, due anni e mezzo, sdraiata sul materassino che si è trascinato davanti alla porta chiusa della stanza dove sua mamma Giovanna è reclusa per il contagio da Coronavirus. Lei non può entrare, la mamma non può uscire allora Mirella le racconta delle storie inventate da lei ispirandosi alle figure del libro che ha in mano, le parole attraversano questo confine invalicabile; solo la voce passa e questo basta per farsi compagnia, per sentirsi vicine, per non sentirsi sole. In casa c’è anche il papà, che sta cucinando per la famiglia o è impegnato con lo smart working, altro effetto collaterale di questo virus.
Mi commuove questa immagine, non solo perché Mirella è mia nipote, ma perché rappresenta l’altra faccia della medaglia, sicuramente quella meno drammatica, ma esistenzialmente impegnativa, della pandemia che stiamo vivendo; quella delle migliaia di persone che asintomatiche o con sintomi lievi sono costrette a vivere da 14 sino a 21 giorni in condizioni di isolamento domiciliare. Questo sempre che la malattia non degeneri…
Requisiti necessari ma non sufficienti sono una camera da letto ed un bagno da non condividere con nessuno.
Il pathos dei ricoverati in corsia o in rianimazione, del personale sfinito, il dramma dei pazienti intubati o con il casco, quasi una campana di vetro sotto cui si tenta di conservare la loro vita, la processione delle ambulanze sono purtroppo fatti noti a tutti; sono direttamente sotto i miei occhi durante i frequenti turni come medico prestato al Pronto Soccorso, escono da tutti i telegiornali.
I risvolti della pandemia sono però molteplici: qualcuno ha osservato intelligentemente che le emergenze in questi tempi di quarantena e coprifuoco sono tre: quella sanitaria, quella economico-lavorativa e quella psicologica, tutte e tre decisive e da affrontare.
Il virus, scovato spesso da un’inaspettata positività di un tampone, ci costringe ad accoglierlo in casa nostra in modo guardingo, riducendo lo spazio vitale del contagiato ad una semplice stanza, senza sconti a noi abituati a muoverci senza avvertire limiti. La stanza da letto come teatro totale delle nostre giornate. Chi l’avrebbe mai detto?! Questo è quanto capitato alla nostra famiglia: moglie e figlia positive confinate nelle proprie stanze, io e altri due figli, fortunatamente negativi, divisi tra lavoro e la cura dei contagiati. Sorvolando sugli aspetti e sulle misure preventive, fatte di mascherine, guanti, detersivi e disinfettanti usati senza parsimonia, stoviglie monouso, sanificazioni frenetiche e lavaggi di mani ossessivi, pasti messi davanti alla porta (quelli cucinati dal sottoscritto onestamente da dimenticare, mentre quelli cucinati dal figlio Guido molto apprezzati), si è creata una situazione imprevista da scoprire ogni giorno.
I dialoghi attraverso le porte chiuse, o più spesso al telefono, le cene condivise su zoom o facetime per poterci raggiungere ed essere insieme: questo ha suscitato una condivisione ancor più voluta e decisa. Durante le lunghe telefonate della sera usciva da quelle stanze chiuse un mondo vivo, non certo rassegnazione o sopportazione. Certamente anche fatica. Una condizione di isolamento che mia moglie Patrizia racconta come formale ma non sostanziale, formale per le condizioni vissute, ma nell’isolamento non si è sentita sola, segregata, ma accompagnata da chi aveva cura di lei, da chi le portava i pasti, le lavava i vestiti e le faceva le iniezioni, dalla sorella che le portava l’eucarestia, da chi le telefonava tutti i giorni, figli, medici o amici della vita, condividendo il tempo e le aspettative, ai nipoti che la salutavano dalla finestra portando una torta, ai figli che attraverso Amazon le inviavano il libro che desiderava aggiungendo una crema di bellezza (mamma abbi cura di te!).
Scoprendo una compagnia nella propria persona: lei stessa si faceva compagnia, leggendo, pregando, affidandosi. Giornate in cui il tempo e lo spazio hanno acquistato inedita ampiezza e profondità, in cui l’essenziale diventa l’occasione di un pellegrinaggio dentro di sé. Anche la paura è stata una compagna quotidiana e notturna, paura che la malattia, dopo i primi giorni di febbre e astenia, potesse virare in maniera brutale come spesso fa: adesso tutto bene, stasera non si respira più. Affidando la propria vita sino a pensare alla possibilità che ti venga tolta: un pensiero che questo virus ha reso realistico. Sentirsi come bambini che per assurdo temono che la propria madre possa farli cadere dalle braccia.
La camera da letto avvertita non come una cella di carcere ma come una cella monacale, dilatata al mondo, la dipendenza dal proprio destino buono che diventa un cammino anche stando a letto o seduti. Tutto questo apparente contrasto ha segnato queste giornate. Ma non è stato un tempo sospeso, isolato, da far passare contando le ore. Non la percezione di aver interrotto qualcosa, non ore tra parentesi, non c’è stata diversità sostanziale dai periodi in libertà: quello che rende belle o brutte le giornate ordinarie ha reso belle o brutte queste giornate in isolamento.
Risultato insperato una gratitudine ed un’affezione verso questo Dio che si prende cura di te attraverso qualcuno: anche nell’isolamento si desidera essere oggetti di un affetto e per questo si ringrazia, come fanno tanti pazienti per i quali il sorriso di un’infermiera, la parola di un medico, magari attraverso il casco, la telefonata di un parente sono ciò che li ha tenuti legati alla vita. Solo l’amore è essenziale.