«Nella prima parte, con il lockdown di marzo, quella che si era verificata era una sorta di angoscia. Che non è la paura, perché la paura è un ottimo meccanismo di difesa. Vedo un incendio, scappo. Ha come oggetto qualcosa di determinato. Mentre l’angoscia non ha qualcosa di nitido davanti a sé. È quello che provano i bambini quando si spegne la luce nella loro stanzetta e loro non sono ancora addormentati. La sensazione spiacevole di non avere più punti di riferimento», così il filosofo Umberto Galimberti introduce il suo ultimo saggio “Heidegger e il nuovo inizio. Il pensiero al tramonto dell’Occidente” nell’intervista odierna al Corriere della Sera, a firma Walter Veltroni. Una lunga chiacchierata sul tema della paura, dell’angoscia, delle fragilità che incombono sull’uomo di fronte alla mancanza di quanto oggi il Presidente della Repubblica Mattarella ha definito come «solidarietà collettiva davanti alle difficoltà». Dall’angoscia però il rischio è lo step successivo, ovvero quanto avvenuto in questa seconda ondata: «la stanchezza di essere confinati e una imprevedibile sorta di superficialità nel considerare il pericolo ci hanno fatto ripiombare nell’incubo. E la condizione allora è quella di spaesamento, non più di angoscia. Cosa dobbiamo fare, come ci dobbiamo comportare… Sabbie mobili. È un sentimento che oscilla tra il ribellismo, la rassegnazione e la disperazione non solo dei parenti di coloro che muoiono, ma anche di quelli che perdono il lavoro o chiudono il negozio o l’impresa». Secondo Galimberti l’uomo oggi ha perduto «la normalità del nostro vivere».
“L’ITALIA OGGI È PIÙ DEBOLE”
Allo spaesamento viene immediato e quasi naturale la richiesta di “decisionismo”, ma per il filosofo e scrittore questo in realtà è un pericolo: «la gente vive comunque nell’ipotesi che il contagio non sarà la forma eterna della nostra convivenza. Prima o poi se ne uscirà. Certo che questa sospensione ci mette in uno stato di stand by abbastanza disagevole». Per Galimberti l’umanità oggi è assai più debole di decenni fa, «siamo molto più fragili, molto più incerti rispetto a quella uscita dalla Seconda guerra mondiale. Ogni generazione che ha avuto a che fare con le guerre, poi si è data da fare per la ricostruzione della società e della propria vita. E in questo ha trovato il senso, individuale e collettivo del proprio cammino. Noi siamo da settanta anni in uno stato di pace beneficiati da una cultura consumistica che accontentava ogni nostro desiderio». Siamo una società debole che ora fa fatica ad uscire dallo stato di “spaesamento”: «non siamo abituati al sacrificio, alla fatica, all’impegno, alla solidarietà. E allora è più difficile sopportare le tragedie come può essere questa. Perché siamo meno forti, molto meno forti di prima». La “proposta” del filosofo è quella di recuperare in questo tempo di complessità e fragilità, una più forte “interiorizzazione”: «La mia impressione è invece che la gente abbia paura di indagare se stessa e questo lo possiamo dedurre anche dal fatto che, se è vero che io sono un funzionario d’apparato dal lunedì al venerdì, il sabato e la domenica potrei usarli per leggere un libro, per vedere altri orizzonti, per assistere ad altri scenari, per capire quali sono le forme autentiche di relazione e di sentimento. Ma non va così. Il week end è una fuga all’esterno, non un viaggio all’interno». Secondo il filosofo e analista bisognerebbe cominciare già da bambini a insegnare ed educare su chi si è, cosa si fa e cosa si vuole fare nel mondo: «Se questi pensieri cominciassero ad essere introdotti già dalla scuola forse ci sarebbe un modellino interiorizzato per farlo poi da adulti. Perché vivere a propria insaputa è la cosa peggiore che possa accadere nella propria esistenza».