La sanità calabrese è, per alcuni, un campo di battaglia politica, per altri un’occasione di business in una drammatica realtà territoriale in cui paradossalmente la sanità privata, almeno in alcuni ambiti, offre a caro prezzo servizi peggiori di quella pubblica. A farne le spese sono, per entrambe le cause, i calabresi.
Il presidente facente funzioni, l’eccentrico Nino Spirlì, imposto alla compianta Jole Santelli dal leader della Lega Matteo Salvini, nonostante tre consiglieri eletti nelle sue liste, si è trovato ad assumere la presidenza pur “non votato da nessuno”; oggi rivendica, da difensore del territorio, la possibilità che a gestire la sanità calabrese non siano più soggetti nominati dai palazzi romani.
Il procuratore distrettuale di Catanzaro, Nicola Gratteri, dopo quanto dichiarato nello studio di Lilli Gruber, precisa che il suo non era un attacco a Gino Strada, ma che voleva solo spiegare che “gestire un ospedale in Calabria non è la stessa cosa che in Africa”. Operare in Calabria è più difficile che non in alcuni Paesi africani?
Buona parte del M5s ha impugnato la bandiera del fondatore di Emergency forse per riprendersi dalla figuraccia di aver indicato in passato Saverio Cotticelli, messo in crisi dall’ormai celebre intervista televisiva della Rai e caduto nella polvere dopo i suoi trascorsi militari nella ex Jugoslavia e dopo aver sfiorato la possibilità di diventare comandante generale dell’Arma dei Carabinieri.
Dal proprio punto di vista ognuno dei menzionati potrebbe aver ragione. Le ragioni che latitano sono quelle dei calabresi, costretti da diversi decenni a una sanità disastrata, generatrice di debiti, di inchieste giudiziarie limitate alle briciole cadute dal tavolo e soprattutto costretti a preoccuparsi ogni volta che si avvicinano a un ospedale locale o a emigrare anche per una banale appendicectomia o a rivolgersi, quando possono, a pagamento alle strutture private per non subire liste di attese di mesi o addirittura anni per una Tac, una risonanza o addirittura un banale e urgente Ecg.
Dopo le tre rinunce dei vari Cotticelli, Zuccatelli e Gaudio, il nuovo commissario potrebbe essere Federico Maurizio D’Andrea. È un ex ufficiale della Guardia di Finanza, con doppia laurea e abilitazione, sia dottore commercialista sia avvocato, già collaboratore del pool di Mani Pulite e in particolare di Francesco Saverio Borrelli. Risponde anche a uno dei requisiti “imposti” da Gratteri: è calabrese, ma vive fuori dalla Calabria.
Chiunque sarà il nuovo commissario chiamato a salvare la sanità calabrese, non potrà sperare di essere investito dalla kriptonite e trasformarsi in un nuovo Superman. La Calabria ha un finanziamento pro-capite dallo Stato tra i più bassi e l’indice Lea minore in assoluto. Le gestioni degli anni precedenti al commissariamento hanno prodotto debiti milionari e si parla di debiti fuori bilancio stimabili tra 2 e 3 miliardi di euro, di cui un miliardo nella sola Azienda provinciale di Reggio Calabria. Debiti di diversa origine, i cui corrispondenti crediti non sono dei piccoli operatori calabresi, magari sospettati di ‘ndrangheta, ma anche di multinazionali o acquisiti da società finanziarie o di factoring inglesi.
In Calabria sono presenti alcune professionalità di grande valore tra i medici che resistono nelle strutture pubbliche calabresi, ma è diffuso, più che nel resto d’Italia, personale non adeguatamente preparato o affossato nell’oblio del posto pubblico; molte strutture fanno poi registrare una carenza anche numerica del personale, con il turnover bloccato dal piano di rientro.
Nonostante i commissariamenti, la gestione amministrativa e contabile è piena di ombre e di buchi, di bilanci basati sulla “tradizione orale”. Le vecchie Asl, poi trasformate in Asp (Aziende sanitarie provinciali) vivono da sempre in una sorta di assalto alla diligenza, con fornitori e case di cura che si pagano a forza di decreti ingiuntivi, con facili doppi pagamenti, o sulla base di sentenze dei Tar quando le prestazioni erogate dal privato vanno ben oltre i budget concordati o imposti dalla Regione. L’assistenza territoriale è di fatto sparita; gli anziani, gli invalidi o i malati cronici che potrebbero e dovrebbero essere curati a domicilio si sentono rispondere che non c’è personale. Due aziende territoriali e una ospedaliera sono amministrate da commissari prefettizi, dopo gli scioglimenti per infiltrazioni mafiose.
I piccoli e medi ospedali sono stati chiusi a metà degli anni 2000, si sarebbero dovuti trasformare nelle cosiddette “case della salute”, ma per molte specialità le prestazioni sono di fatto inesistenti. Le ambulanze, spesso senza medico a bordo, circolano con anche un milione di km sulle spalle e spesso restano per strada. I tre pronto soccorso di Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria, già prima del Covid presentavano tempi di attesa fino a 48-72 ore, trasformandosi di fatto in astanterie piene di sofferenza e di sporcizia.
A tutto questo, se non si assumono iniziative forti da parte dello Stato, con qualsiasi supporto possibile, da Emergency alla Protezione civile, all’Esercito e soprattutto non mettendo in campo personale, forze e fondi immediati, anche con una legge speciale, nessun commissario potrà ovviare.
Un commissario quale “uomo solo al comando” per quanto possa essere capace, non basta. Occorre una task force con diverse professionalità, con capacità in ambito sanitario, gestionale, amministrativo, giuridico, logistico… Chiunque, da solo, rischia di essere fagocitato o di risultare refrattario a un sistema ormai malato. Non basta un modello organizzativo, occorrono anche qualità umane e serve convincere e coinvolgere la volontà locale: senza questa non è possibile il cambiamento. Bisogna costruire un patto sociale che metta insieme i vari attori per uscire da una crisi sanitaria, sociale ed economica dagli sviluppi imprevedibili. Come il Covid colpisce individualmente i più deboli, così nella complessità del sistema, in un ambito come quello calabrese, rischia di produrre danni più che altrove. Occorre, quindi, puntare sul capitale umano e lavorare in modo paziente nel restaurare l’umano.
I rischi, concreti, sono quelli di rivolte da parte di calabresi esasperati e di migliaia di morti per Covid o per altro nei prossimi mesi. Occorre agire prima che la situazione calabrese affondi e diventi, allora sì, davvero una questione di rilevanza nazionale.