Capita spesso che le ferite, raccontate dopo esser state vissute, diventino feritoie magnifiche attraverso cui ammirare la parte bella di noi, il lato vero della nostra persona. Una sfaccettatura che prima, magari, se ne stava addormentata. E’ sapienza spicciola che se la sofferenza, anche quella minuscola, ci avrà reso più cattivi di com’eravamo, vorrà dire che l’abbiamo sprecata. Sofferenza che è legge di uguaglianza per tutti gli uomini. Una sofferenza, quella personale, che il Papa non teme di condividere, quasi gettando un ponte per tenere uniti gli ultimi giorni dell’anno liturgico che sta per chiudersi con quelli del nuovo che fra poco inizierà. Il titolo è suggestivo: Ritorniamo a sognare (Piemme, 2020). Quasi una sorta di esortazione a ritrovare l’arte delle spigolatrici che, dopo la trebbiatura di un campo di grano, passano a raccogliere gli avanzi perché nulla vada perduto.
La trebbiatura è stata la pandemia: i lavori sono ancora in corso, la terra è stata arata in maniera inaspettata. Ciò che resta è il tutto dal quale ripartire: la grande sofferenza, quella collettiva ch’è la proiezione di quella personale. «Ho avuto la mia prima esperienza del limite, del dolore e della solitudine – racconta il Papa -. M’ha cambiato le coordinate». La prima, in tre grandi momenti di buio; l’altra sarà frutto del suo esilio volontario, nel 1986, in Germania. La terza sarà il guadagno del suo sradicamento a Cordoba al quale sarà costretto «per il modo di comandare, prima da provinciale, poi da rettore. Qualcosa di buono senz’altro lo avevo fatto, ma volte ero stato troppo duro». L’analisi personale è il racconto della storia della sua anima: nulla di sorprendente, dunque, se si pensa alla sua amicizia, sempre professata, con la mistica Teresa di Lisieux, l’autrice della Storia di un’anima nella quale lei racconta del suo sé, svestito del superfluo: «E’ veramente la mia anima quanto rileggo in questo quaderno! (…) Madre mia, queste pagine faranno molto bene. Faranno conoscere la dolcezza del buon Dio» (Storia di un’anima). C’è un Dio nascosto dietro una sofferenza meditata, una parola riscritta, una correzione avvenuta. Chi attraverserà questa terra della carne ferita, dello spirito pigiato come i grappoli d’uva nel torchio, ne uscirà con una forte allergia alle parole di circostanza: «Da quella esperienza – continua il Papa – ho imparato un’altra cosa: quanto sia importante evitare la consolazione a buon mercato (…) Parole vuote, dette con buone intenzioni, ma che non sono mai arrivate al mio cuore». Le parole, ce lo insegnano i mistici, sono sempre una fonte di malintesi: esserci, quando il male passa, è la puntualità di chi accetta di condividere una strada piuttosto che indicare direzioni: «Dopo quell’esperienza presi la decisione di parlare il meno possibile quando visito i malati. Mi limito a prendergli la mano» continua il Papa. Parole semplici, tutt’altro che scontate.
E’ il destino, forse, del cristianesimo stesso. All’uomo di fede nessuno, tra i sofferenti, chiede ragione della sofferenza: il perché del male, della sofferenza ingiustificata, sarà materia di chiarimento da parte di Dio nell’Ultimo Giorno. La richiesta in corso è molto più esigente: nessuna deduzione, ma la condivisione della sofferenza, il sedersi accanto in silenzio, una mano a stringerne un’altra. Il risultato è duplice, nessuno darà senza ricevere: chi soffre otterrà un’amicizia in dono, a chi offre l’amicizia arriverà «il dono di capire che per le cose importanti ci vuole tempo (…) L’importanza di vedere il grande nel piccolo, di stare attento al piccolo nelle cose grandi». Una riflessione, quella che il Papa fa nel libro, che non apporta nulla di sconvolgente in materia di dottrina, di teologia, di fede. Una semplice condivisione, com’è suo stile, in una materia intricatissima com’è l’arte di sapere soffrire senza suicidarsi. Per farlo, però, occorrerà prima aver vissuto: «A un cuore in pezzi nessuno s’avvicini senza l’alto privilegio di avere sofferto altrettanto» scrive Dickinson. Un Papa, dunque, che non parla per sentito dire, per averlo letto. Parla da guaritore ferito. Le altre parole sarebbero sciocchezze.