Il ritmo serrato con cui muoiono le persone colpite dal Covid-19, arrivate ormai a quota 50mila, è paragonabile alla scomparsa di una intera città. Cifra che si tende a dimenticare per non avere paura, facendo finta di niente. Non è così per chi deve stare davanti a questa realtà giorno dopo giorno, dallo scorso marzo, come Chiara Melacini, pneumologa dell’ospedale di Vimercate, in provincia di Monza-Brianza: “Ci troviamo a prenderci cura non solo dei pazienti che arrivano da fuori, ma anche dei nostri stessi colleghi. Qui a Vimercate è venuto a mancare un nostro direttore sanitario, persona davvero in gamba, e ci stringiamo tra di noi, medici e infermieri, per trovare la forza di stare davanti a tutto questo. Qualche giorno fa è morto un ragazzo disabile e dopo pochi giorni sono venuti a mancare anche i suoi genitori: ho contattato un amico prete e abbiamo fatto celebrare una messa, ricordando nome e cognome di tutti coloro che sono venuti a mancare. Non posso fare altro che chiedermi cosa avrei fatto io al posto dei familiari che non hanno neppure potuto vedere i loro cari deceduti”.
Come pneumologia lei segue i pazienti Covid?
Sì. Seguo principalmente il reparto Covid, dove oggi abbiamo 52 pazienti, ma ne abbiamo avuti anche di più, l’80% dei quali sono scafandrati. Abbiamo anche pazienti senza Covid e seguiamo anche loro.
Avete problemi di intasamento dei posti letto e del pronto soccorso?
Abbiamo avuto dei problemi quando è cominciata la seconda ondata, ma ci siamo organizzati sul momento, in base ai numeri che crescevano. All’inizio, secondo le disposizioni, li trasferivamo nelle Asl, quando poi si sono riempite, abbiamo cominciato a prendere i sub acuti, poi gli acuti con il crescendo delle infezioni.
Molti suoi colleghi ammettono che rispetto a marzo-aprile siete più preparati, resta però il fatto che il Covid è ancora una malattia che in parte sfugge alle cure. Qual è il percorso di un paziente sospetto Covid? Molti entrano con sintomi non gravi e in poco tempo possono essere a rischio della vita?
Sì, esatto. Guardando alla mia esperienza, rispetto a marzo-aprile, quando eravamo davanti a una malattia allora sconosciuta e arrivavano persone spesso curate a domicilio dopo anche due settimane di febbre, che giungevano qui in gravi condizioni, adesso un paziente ha la febbre e fa il tampone, poi viene impostata una terapia. E’ anche vero che ci sono pazienti anche giovani con patologie come il diabete e l’ipertensione, che nel giro di appena due giorni possono precipitare.
Come può succedere?
Possono mostrare complicanze come un’embolia polmonare, per questo nei primi giorni di ricovero monitorizziamo tutti i giorni con esami del sangue: attraverso il prelievo arterioso si vede se c’è una risposta, il paziente viene messo a pancia in giù e si osserva se c’è un miglioramento.
Dunque, problemi cardiaci e diabete sono le cause maggiori per il peggioramento?
Anche l’età influisce. Essere diabetici, ipertesi e anche in sovrappeso sono fattori che aumentano il rischio.
Dal suo punto di vista ha mai temuto per lei o per i suoi familiari?
Sono sposata, ho tre figli. A marzo-aprile li abbiamo mandati in montagna dai nonni, ho vissuto separata in casa, non li ho visti per due mesi e mezzo. Adesso i miei figli hanno chiesto di rimanere a casa, siamo tutti attenti e consapevoli su come comportarci. E poi la mia azienda sanitaria ci controlla con il tampone ogni 15 giorni e questo mi dà maggiore serenità.
C’è anche una fatica psicologica che colpisce gli operatori sanitari. Lei l’ha riscontrata fra i suoi colleghi? Stare davanti a tutte queste morti non deve essere per niente facile…
Umanamente è una situazione drammatica. Durante la prima ondata è stato molto difficile vedere tutte queste persone morire da sole, dover comunicare ai familiari il decesso e dire loro che non potevano vederli. È stato davvero faticoso e straziante. Come persona di fede ho contattato un amico prete e ho fatto celebrare una messa, ricordando nome e cognome delle persone morte. Qualche giorno fa è morto un ragazzo disabile e poi anche i suoi genitori, una tragedia che ha colpito tutto il reparto. Anche in questo caso abbiamo fatto celebrare una messa.
E’ abbastanza davanti al lutto e al dolore?
Mi sono chiesta cosa avrei fatto al posto di queste persone che hanno perso i loro cari. Mi sono offerta di dare la comunione ai pazienti, per stare davanti a questa malattia ci vuole qualcosa di più. Da noi è morto un direttore sanitario, una bella persona, perché qui curiamo anche i nostri colleghi, c’è una partecipazione emotiva che si raddoppia. L’importante è riuscire a stare davanti a questa realtà, far loro compagnia: siamo un bel gruppo di medici e infermieri, anche questo è un aiuto. Adesso che è cominciato l’Avvento abbiamo organizzato una messa per noi dipendenti. Ci credo molto, è un modo per entrare nella giornata vedendo una luce. L’azienda sanitaria ci ha dato il permesso e questo è stato molto bello da parte loro.
(Paolo Vites)