Caro direttore,
quelli della mia generazione, nati nei primissimi anni Ottanta, hanno conosciuto il calcio conoscendo Maradona. Senza intermediari, senza passaggi. Forse è per questo che la sua morte ci ha così sconvolto. È come se un pezzo della nostra infanzia fosse andato via per sempre, come se un pezzo della nostra vita si fosse chiuso definitivamente. C’è stato questo sentimento del tempo che “passa e quasi orma non lascia” nella commozione che ci ha preso la gola al sentire “Maradona è morto”. È morto lui, e con lui la nostra “miglior parte” – la giovinezza, le sue attese, le sue speranze – e per questo ci siamo sentiti se non smarriti quantomeno da riposizionare essendosi (ri)affacciata la vita in tutta la sua sfacciata crudezza.
Capite perché sarebbe una violenza acerba ridurre tutto a “è stato un buon giocatore e basta”, come a volte si è sentito in questi giorni? Maradona è stato molto di più: è stato il motore di un sogno, la miccia di una promessa, l’attesa di una felicità. Per milioni e milioni di persone nel mondo. Un “povero Cristo” come lui può aver appicciato tutto questo in tanti cuori affranti? Può, eccome se può, non per niente è stato un mito.
Ora ci ha costretto tutti a fare i conti con quello che ci è rimasto fra le mani. E basterebbe questo per dirgli un grazie grosso come una casa.
Ma c’è un altro aspetto che mi ha disturbato nei profluvi di commenti di questi giorni amari. L’idea che Maradona – per il suo passato fuori dagli schemi e ricco di errori (amico della camorra, figli non riconosciuti ecc.) – sia stato un cattivo esempio per i nostri giovani e per questo non andrebbe né osannato né assolto come si starebbe invece facendo. Sono saltato dalla sedia a sentir dispensare tanta gratuita e brutale banalità. Soprattutto notando che spesso questi commenti venivano da insegnanti che ogni giorno lottano in trincea con adolescenti sempre più soli e persi.
Mi ha ferito, in particolare, la facilità di molti che sanno ergersi a censori dei comportamenti altrui. Come è penoso, come è farisaico, come è noioso puntare il dito. Noioso, soprattutto, perché i ragazzi – a differenza nostra, che ci sentiamo a posto – sanno intercettare con meravigliosa puntualità la fragilità umana di Maradona, perché è esattamente identica alla loro. Identica. Come è identica alla mia. Come è identica a quella di ciascuno di noi. Quella fragilità umana di chi ha ed è vuoto, di chi cerca e non trova. Se noi adulti sappiamo solo rispondere loro che “non si fa”, che “la camorra è merda”, o che “i figli si riconoscono” – cose, peraltro, che sanno benissimo da soli e che si sentono stancamente ripetere fin dagli anni dell’asilo, ma che non gli bastano – noi non solo non avremo portato nessun contributo originale alla loro (e alla nostra) crescita umana, ma saremo anche inevitabilmente allontanati dai loro sbadigli che rovinosamente ci vomiteranno in faccia. Dad o non Dad.
Io credo, invece, che sarebbe infinitamente più interessante penetrare con loro questa fragilità, scovandone i meandri più nascosti e solleticandone gli anfratti più inconfessabili. E intuendo così che il problema della vita non è dire o fare la cosa giusta, ma essere amati e amare così come si è. E basta. Da qui, e solo da qui, sorgeranno quei frutti di buona condotta civile e privata che tutti, ovviamente, ci auguriamo. Non si diventa giusti cercando la giustizia ma seguendo “chi” è giusto.
Per questo: grazie Diego, per quello che sei stato, come tu, e solo tu, hai saputo esserlo.