Il diavolo che Giuseppe Conte cerca di esorcizzare da mesi starebbe prendendo corpo. Si chiama rimpasto, nome più da masterchef che da Palazzo Chigi e gran nemico del presidente del Consiglio che invece non vuole si muova foglia. Il premier ha fatto dell’immobilismo la cifra del suo secondo esecutivo, la maggioranza assomiglia a un castello di carte che tutto sommato regge, ma che basta un refolo di vento per demolire. I latini avevano un motto che molti democristiani della prima Repubblica avevano fatto proprio: “Mota quietare, quieta non movere”. Paralisi. Dall’Alitalia ad Autostrade, dai trasporti alle scuole, dall’Ilva di Taranto alla stagione invernale fino ai programmi per impiegare i soldi del Recovery Fund dei quali non si vede l’ombra: una volta si nominavano commissioni, adesso c’è il ritornello di Conte secondo cui “il governo ci sta lavorando”.
Il Pd invece sembra sempre più convinto di agitare le acque dello stagno accelerando sul rimpasto. È l’incubo di Conte che teme l’effetto domino, dove se cade una tessera poi cade anche quasi tutto il resto. Per il partito di Zingaretti rimpiazzare qualche ministro è anche una moneta di scambio con Silvio Berlusconi, non per farlo entrare nel governo quanto per lanciargli segnali di moderazione. E per trattare con lui anche la vera partita dei prossimi mesi, cioè quella per il Quirinale.
Quello che il Cavaliere ha messo sul piatto della bilancia è una legge elettorale che gli restituisca centralità anche con numeri risicati nel futuro Parlamento ridotto, e una redistribuzione dei finanziamenti europei a favore delle partite Iva, così che gli azzurri possano presentarsi agli appuntamenti elettorali (a partire dai sindaci delle grandi città nella primavera prossima) strappando alla Lega la bandiera della difesa di imprenditori, artigiani e professionisti.
La scelta del Pd è quella di spalleggiare Berlusconi per allontanare il rischio di vedere un sovranista a Palazzo Chigi se non addirittura al Quirinale. E se non è pensabile di formare una nuova maggioranza (sarebbe la terza diversa di questa incoerente legislatura), il primo senso di un cambio di rotta arriverebbe proprio da un rimescolamento delle carte al governo. Via qualche grillino inconcludente, dentro qualche “responsabile” democratico concordato con il Cavaliere.
Gli ostacoli per i progetti del Pd sono due. Il primo è la reazione grillina, che ha già fatto partire il tam tam secondo cui dal Nazareno si preoccuperebbero soltanto di occupare poltrone. La questione è complessa, visto che lo stesso M5s eccelle nell’arte di accaparrarsi posti di potere e sottopotere; tuttavia, l’argomento attizza una bella fetta di italiani esasperati dalle conseguenze della crisi sanitaria. L’altro problema è la resistenza del Quirinale.
La domanda che arriva dal Colle è molto terra terra: come avverrebbe questo benedetto rimpasto? Qualche ministro si dimette e qualche altro subentra? Decidono tutto le segreterie dei partiti senza consultarsi con il presidente cui la Costituzione assegna il compito di nominare i ministri? Ci sarà un passaggio parlamentare, con conseguente apertura formale della crisi, consultazioni senza assembramenti, inevitabili lungaggini che consoliderebbero la già scarsissima attitudine del governo ad agire? Sui tavoli delle trattative ci sono anche questi nodi, difficili da sciogliere al pari degli altri.