A metà novembre è stato firmato il Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), l’accordo commerciale di libero scambio tra 15 Paesi: Cina, Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud, Giappone più i dieci Paesi dell’Asean (l’Associazione dei Paesi del Sud Est Asiatico): Brunei, Laos, Myanmar, Malesia, Vietnam, Cambogia, Thailandia, Singapore, Filippine, Indonesia. Un trattato che, quando sarà ratificato definitivamente, interesserà il 30% del Pil mondiale.
Data l’importanza economica e geopolitica di questo accordo, ha destato molta attenzione l’assenza dell’India, il secondo Stato più popoloso della regione e del mondo, e degli Stati Uniti. Questi ultimi, peraltro, si erano ritirati nel 2017 anche dal Tpp (Partenariato Transatlantico) per decisione di Donald Trump e a seguito della sua strategia basata su accordi bilaterali. Tuttavia, gli altri 11 Paesi hanno continuato le trattative senza gli Usa, dando vita a un nuovo accordo (Cptpp). La Cina non partecipa al Cptpp, ma è ora il Paese più importante nel Rcep, insieme al Giappone, data la decisione dell’India, lo scorso anno, di ritirarsi dalle discussioni.
Al di là dei risvolti economici e commerciali, sotto il profilo geopolitico è difficile non considerare il Rcep un successo per Pechino, come afferma Francesco Sisci nella sua intervista al Sussidiario. Sisci sottolinea un altro aspetto molto importante e cioè la diminuzione di peso degli Stati Uniti, almeno sotto il profilo economico e commerciale, presso gli storici alleati della regione. Giappone, Corea del Sud, Filippine o Australia hanno relazioni non proprio cordiali con Pechino, data la sua politica espansiva anche militare, ma ciò non li ferma di fronte ad accordi commerciali.
L’alleanza con gli Stati Uniti sembrerebbe così limitata ai fondamentali aspetti militari e di sicurezza, ma appare anche una certa volontà di sottrarsi a un controllo troppo stretto da parte degli Stati Uniti. Ciò particolarmente per il Giappone che, per l’assenza dell’India, si trova con un ruolo di protagonista nell’accordo. È significativo che il Giappone abbia chiesto, e ottenuto, che l’India possa accedere al trattato, qualora lo volesse, senza periodi di aspettativa, così da fiancheggiarlo nel contenimento di Pechino.
Tuttavia, di fronte ai notevoli possibili benefici dell’accordo, Nuova Delhi ha dato maggior peso all’oggettivo pericolo di dumping da parte cinese a danno dell’industria locale. Come sottolinea Asia News, l’accordo non dice nulla circa i diritti e la protezione dei lavoratori, e dell’ambiente, con un consistente rischio, anche per l’Europa, di penetrazione di prodotti a prezzi “imbattibili”. Inoltre, l’India teme conseguenze negative per la propria agricoltura, minaccia questa volta proveniente da Australia e Nuova Zelanda. Il governo indiano si è perciò posto come obiettivo più importante il rafforzamento della propria struttura industriale ed agricola, un obiettivo che ricorda “America First” di Trump.
Di fronte a Joe Biden si presenta perciò una situazione difficile. Un possibile rientro nel nuovo Tpp suonerebbe come una clamorosa smentita di Trump, forse gradita al partito democratico, ma che sarebbe presa come un’andata a Canossa dagli altri membri del patto. Né è ipotizzabile una adesione al Rcep, che costringerebbe gli Usa a una non breve anticamera e al placet di Pechino. Almeno a breve, la strada potrebbe essere quella di accordi con i Paesi alleati che riducano la possibile influenza cinese all’interno del Rcep. Una ripresa, con altre modalità, della strategia trumpiana, a partire dai rapporti con l’India, che a sua volta deve evitare il rischio dell’isolamento.
Qui il problema è dato dalla politica del governo di Narendra Modi, improntata a un acceso nazionalismo fondato sulla religione induista, che sta sempre più trasformando l’India in senso accentratore e autoritario. Significativo in tal senso è un lungo articolo apparso su The Economist, dal titolo: “La calante democrazia dell’India”. Uno dei risultati negativi è l’incremento dei maltrattamenti nei confronti dei non induisti, contro la consistente minoranza musulmana, circa il 14% della popolazione, e i cristiani, stimati a poco più del 2%. È poi da tener presente la maggiore aggressività nella questione del Kashmir, con scontri con le forze pachistane, e le controversie di confine con la Cina, che hanno recentemente portato a scontri armati con decine di morti da ambo le parti.
Come si può vedere, una strada del tutto in salita per Biden, tanto più che manca ancora un mese a quando potrà esercitare effettivamente le sue prerogative di presidente.