Non fa ormai neanche più “notizia” ma che in Iraq in soli 17 anni siano “spariti” un milione di cristiani lo riteniamo ancora un qualcosa non solo da raccontare, ma anche denunciare: l’occasione viene fornita dalla bella intervista del giovane arcivescovo caldeo Bashar Warda su “Repubblica”, dove con semplicità di cuore e testimonianza di fede prova a raccontare la persecuzione ancora in atto nell’Iraq islamista post-Saddam Hussein. Ha fondato da pochi anni l’università Cattolica di Erbil, una delle pochissime enclavi rimaste di quella che fu una storia minoranza religiosa in Medio Oriente: dal capoluogo del Kurdistan è Warda a raccontare la condizione ignobile a cui sono sottoposti i cristiani in Iraq ancora oggi, «La poca sicurezza e l’instabilità sono una minaccia costante per la comunità cristiana in Iraq. I cristiani sono fuggiti in massa da Bagdad e da Bassora verso il Nord dopo la guerra del 2003. Poi con l’aggressione dell’Isis nel 2014 c’è stato un secondo esodo dalla Piana di Ninive e da Mosul. Oggi purtroppo non ci sono ancora le condizioni di sicurezza per potere permettere alle famiglie cristiane di tornare nelle loro terre». L’accusa lanciata dall’arcivescovo cristiano non va però solo contro le milizie jihadiste o le tribù islamiste locali: «Sia a livello locale che internazionale manca la volontà per imporre una soluzione equa per i torti subiti e per proteggere coloro che da soli non si possono difendere. Se questa tendenza non sarà invertita, la comunità cristiana potrebbe estinguersi del tutto in Iraq nei prossimi trent’anni».
I NUMERI DELLA CRISI IN IRAQ
L’appello lanciato da Mons. Warda all’Ue e agli Stati Uniti è tanto accorato quanto fragoroso: «promuovano politiche concrete per difendere il nostro diritto ad esistere. Il rischio che le nostre antiche comunità si estinguano del tutto è purtroppo reale. I consolati di tutti i Paesi occidentali a Erbil sono a pochi chilometri da Sinjar e dalla Piana di Ninive: stiamo scomparendo dalla nostra terra proprio di fronte ai loro occhi». L’unico sostegno concreto è stato dato in questi anni difficili dalla Cei che ha contribuito anche alla fondazione dell’Università di Erbil dove sono accolti studenti cristiani, musulmani e altri: «Abbiamo accolto l’altr’anno 576 famiglie di cattolici siriani che ora sono in attesa di un visto per l’Australia, il Canada e gli Stati Uniti. Nel frattempo la crisi economica, peggiorata dalla pandemia del Covid, ha reso la vita dei rifugiati estremamente difficile, direi disperata», spiega ancora Warda nel lungo colloquio su Repubblica. Il rischio fortissimo però è che queste comunità già largamente perseguitate negli ultimi 15 anni in Medio Oriente, possano sparire del tutto nei prossimi anni: «Prima del 2003 c’erano in Iraq oltre 1 milione e trecentomila cristiani. Oggi ne sono rimasti meno di trecentomila. Quando non c’è lavoro, non sono garantiti diritti alle minoranze e senza sicurezza, la fuga e la diaspora sono purtroppo la scelta di molti». La strada da seguire è quella del dialogo interreligioso e sulla co-abitazione concreta nei territori già di per loro difficili per le condizioni economiche e politiche: ma non bastano conferenze internazionali e dichiarazioni “simil-pacifiste”, come conferma l’invettiva di Warda «Che cosa è stato fatto di concreto in occidente per fermare la fuga dei cristiani dall’Iraq e dal Medio Oriente e per difendere davvero la libertà religiosa? Troppo poco. E oggi il cristianesimo è diventata la religione più perseguitata e minacciata al mondo». Le voci in difesa del cristianesimo si contano sulle dita di una mano al giorno d’oggi, al di là delle parole politicamente corrette: così conclude Warda nel suo rinnovato appello all’Occidente, occorre fare molto di più non solo sui fronti urgentissimi di libertà politica, religiosa e di opinione «la chiave più importante è l’educazione, un’educazione in grado di formare menti libere con pensiero critico. I cristiani non sono mai stati una minaccia per nessuno in Iraq e in questi 2.000 anni siamo stati apprezzati per il grande contributo che abbiamo fornito a tutte le comunità. Qui in Kurdistan abbiamo costruito scuole, ospedali, una università. Durante la pandemia nei nostri ospedali abbiamo curato tutti, senza guardare al loro credo, alla loro etnia o al loro portafogli».