Il film "La gazza ladra" racconta le ipocrisie del mondo contemporaneo, che cerca il bene ma rischia di perdere i più elementari principi etici
In apparenza solo “un piccolo dramma giocoso”, come quello rossiniano, La gazza ladra di Robert Guédiguian è in realtà un’acuta e divertente fotografia dei tempi nostri, capace di interrogarci sui temi sensibili dell’esistenza, ma dimostra che ormai siamo purtroppo privi di una bussola che guidi i comportamenti.
Il film parla infatti di cura degli anziani lasciati soli (in una società sempre più “vecchia”), di rapporti complicati tra padri e figli e ovviamente di coppie in crisi; ma sembrano svaniti solidi riferimenti morali.
La storia ci offre stralci di vita nel pittoresco e assolato quartiere dell’Estanque di Marsiglia, che fa da sfondo alla precarietà sociale e umana, in cui i protagonisti cercano di cavarsela come possono, anche se mossi dalle migliori intenzioni. Incantevoli appartamenti con terrazza che si affacciano sul Mediterraneo luminoso sono teatro di piccoli e grandi drammi che Maria (la bravissima Ariane Ascaride), badante paziente e premurosa, cerca di risolvere con l’ascolto e la dedizione. Così è nello stesso tempo cuoca attenta e massaia precisa, ma anche amica pronta a correre in soccorso di anziani che si sentono abbandonati, a cui dona il suo ottimismo e il suo sorriso generoso.
Maria è talmente disponibile con i vecchietti, che economicamente stanno molto meglio di lei, che non ritiene di derubarli quando fa la cresta sui soldi della spesa. No, lei non pensa affatto che il suo sia un furto, tanto più che ruba per una buona causa. Insomma, la sua è l’eterna legittimazione del “fine che giustifica i mezzi” o anche la discolpa incosciente di chi, guardando al lusso scintillante dei suoi datori di lavoro benestanti, pensa di avere il diritto di assaporarne un po’.
Per esempio, gustandosi un bel piatto di ostriche (che con i suoi magri guadagni non potrebbe mai permettersi), dopo aver diligentemente cucinato l’agognato abituale branzino allo scontroso vedovo solitario Robert, che in realtà l’adora. Ma l’intraprendente badante non è poi così giovane, è a sua volta nonna, e vive per il nipote Nicolas, precoce talento musicale, a cui lei paga (grazie agli assegni di Robert con firma falsificata) il noleggio del pianoforte. Vuole assicurare al ragazzo anche lezioni private (carissime) del migliore maestro della città, perché possa vincere un importante concorso.
Il piccolo genio ovviamente l’adora e Jennifer, la figlia di Maria, cassiera al supermercato con marito camionista, accetta suo malgrado le interferenze della madre, pur consapevole delle ristrettezze finanziarie della famiglia.
In effetti la nonna sogna un futuro di gloria per il nipote e i suoi piccoli (ma necessari) furti non le creano alcun rimorso né crisi di coscienza, perché – secondo lei – servono solo a contribuire alla felicità di chi nella vita ha avuto di meno.
L’andazzo va avanti fino a quando entra in scena, inatteso, il figlio di Robert, che viene finalmente a trovare il padre. Non per affetto, come ci augureremmo, ma per assicurarsi anticipatamente l’eredità della bella casa, convincendo il genitore a trasferirsi altrove. Qui emergono con misurata ma lucida schiettezza le pretese e i rancori del figlio verso il padre, per le sue scelte di vita nel passato e nel presente.
Robert però non cede e rivendica la sua libertà di condurre come vuole gli ultimi anni della sua esistenza terrena e di decidere dove morire: nella sua splendida casa sul mare, baciata dalla brezza, che accarezza le piante verdi e fiorite della terrazza, bagnate diligentemente da Maria. A questo punto una circostanza imprevista scompiglia le carte: Maria viene scoperta nei suoi imbrogli e denunciata. Dunque la colpevole verrà punita?
Niente affatto, gli eventi inaspettati si moltiplicano, e l’avido figlio di Robert non avrà la meglio, perché il destino può bussare alla porta anche con nuovi amori: la passione lo travolge e ancora una volta ribalta la situazione. Persino il marito di Maria, ubriacone e destinato a perdere sempre al gioco, di fronte alle disgrazie della moglie ritrova il coraggio e la dignità per starle accanto.
Insomma, i modesti e semplici personaggi di Guédiguian, pieni di difetti e piccole meschinità, ma tutti pervicacemente in cerca della propria piccola felicità, sembrano trovare qualche conforto pur nelle loro innegabili difficoltà quotidiane. E forse le relazioni umane, così complicate e poco soddisfacenti, alla fine ne guadagnano.
Tutto finisce in gloria allora? No, il sapore dolce-amaro del film sollecita lo spettatore a una riflessione più profonda. È vero, la vita sembra spesso ingiusta, dà molto ad alcuni e poco ad altri, soprattutto in termini di benessere economico. Ma la precarietà dell’esistenza e delle risorse non può essere il metro di giudizio delle nostre scelte. C’è dell’altro che, per la verità, ne La gazza ladra appare poco, o forse solo per sottrazione. Possibile che la pienezza della vita sia solo lo scampato pericolo che ci conferma nelle nostre limitate illusioni?
Se Maria sfugge all’arresto e il marito sembra ravvedersi, se il figlio di Robert non riesce a vendicarsi dei presunti torti del padre e persino Jennifer perdona la madre e trova un nuovo amore, possiamo per questo congedarci dal film con pacata soddisfazione? I rapporti si aggiustano da soli e ci consentono dunque di guardare con leggerezza alle debolezze umane?
Pur apprezzando la pellicola, divertente e non banale, non ne siamo pienamente convinti. Non ci basta sorridere davanti alle ingiustizie sociali e alle evidenti fragilità, soprattutto nei rapporti familiari e affettivi. Non possono essere considerate uguali tutte le scelte morali, esiste un bene che non coincide con le nostre preferenze istintive o i tentativi maldestri di riscatto. L’autogiustificazione, che percorre tutta la storia di Maria, non è una chiave di lettura sufficiente. Del resto, in qualche momento di lucida coscienza, lei stessa non si riconosce innocente e non può accontentarsi della massima pacificatrice “il fine giustifica i mezzi”.
Dove possiamo perciò ancorare il criterio delle nostre scelte quotidiane? A Chi rivolgere lo sguardo quando siamo preda in realtà dei nostri egoistici criteri e delle nostre meschine “misure”, quando crediamo di fare il bene degli altri e invece ricerchiamo solo una nostra soddisfazione?
È questa la domanda da tenere viva e che in fondo emerge di soppiatto anche da questo gradevole dramma giocoso.
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