Sabato mattina sono sul trabattello, in mezzo al giardino, io e la motosega, a regolare alberi troppo cresciuti, adesso che è stagione del riposo vegetativo; e che non piove. Sono momenti in cui lo squillo del telefono ti suona gradevole come il raschio del gesso sulla lavagna. Suona il telefono. Ed è l’Ettore. Urca, l’Ettore. Da un po’ di tempo avrei dovuto chiamarlo io, per sentire come stava. Sì ma proprio adesso. Ettore, ti richiamo, dammi un’oretta. Vecchio caro amico. Perché mi sono scordato di chiamarlo? L’Ettore. Il cuore gli funziona ancora per un pelo, cioè per miracolo, a dir meglio; nelle coronarie, o comunque da quelle parti, gli hanno sparato dentro non so quanti stent. Di età ha passato gli ottanta. Ciò nonostante appare di buona complessione: uomo piuttosto alto, piuttosto robusto. Conviviale: buoni salumi e buon vino in buona compagnia. Uomo del popolo; dialettale: morire che riesca a pronunciare il suono della zeta, per lui c’è solo la esse, come nel meneghino dei nostri vecchi. Generatore irresistibile di empatia: per via della esse, e poi di due o tre dita della mano che gli mancano pur non avendo mai fatto il falegname; e per la genuina religiosa umanità.
Finisco i miei maneggi con ciliegio e col tiglio. Adesso sono con l’Ettore. Che mi fa: “Maurisio, ho proprio voluto telefonarti. Prima di tutto perché ti stimo, non lo so bene, ho sempre avuto stima. Sai quella volta là che in pubblico hai detto che te, che ci sia il sole o che piova o nevichi, sei sempre lieto” (quanti anni fa? decine. Non mi ricordavo affatto). “Ecco, volevo dirti, che in questi tempi mi rendo sempre più conto e sono sempre più contento e grato del dono che ho avuto nella vita, questa compagnia di amici, ma amici per il Destino. Il dono è di Gesù. È Gesù. E questa compagnia fa la vita bella, tutta da farci essere solo grati” (e gli stent, le dita mozze, le coronarie saccagnate? ma… non esistono; anche se esistono, eccome, con le sofferenze e deprivazioni annesse. Ma non l’hanno vinta, è così evidente).
“Volevo anche dirti che il Natale lo passerò in ospedale. Mi hanno trovato un tumore al fegato e mi devono operare. Mi chiamano il 22 o il 23. Mi hanno detto che è un intervento a rischio, per via del cuore. Molto a rischio. Ho scritto un biglietto per mia moglie e i miei figli. Ho scritto quello che ti ho detto, della mia contentezza e gratitudine. C’erano anche il primario, il chirurgo e l’anestesista, tedesca. Colpiti, sai? La tedesca mi fa: signore Ettore, ce la faremo”. Ogni tanto la voce si spezza. Vien su il pianto. Lo caccia giù subito. Gli faccio: Ettore, io ti tengo via una coppa piacentina che si scioglie in bocca. Ecchecasso (con le esse). Lui ride. Di gioia. Piange. Di gioia; e di infinito. “Salutami tanto tua moglie e i tuoi ragassi. Stanno bene?”. Gli dico grazie. “Ettore, grazie. Ti voglio dire io una cosa. Nel volumetto di Julián Carrón, Il brillìo degli occhi, si dice, rifacendosi all’insegnamento di don Giussani, che autorità è il luogo dove si rende evidente che Cristo vince, e che essa è una paternità presente. Sei riuscito a leggerlo?”. “Sì sì”. “Ecco, ho fatto un po’ fatica su questa idea di paternità: mi è facile considerare fratelli gli amici testimoni; ma padri… la paternità implica che tu sei figlio, e sai che non mi piace usare le parole per modo di dire… Va be’, insomma: quello che sei tu adesso per me è una paternità presente. E mica per quei 10 o 12 anni più di me che hai. Mi genera ora, perché se non la respingo, è una roba che mi fa rinascere. Segno certo che non sono orfano. Adesso mi è chiaro, inoppugnabile”.
L’Ettore. Lo sappiamo tutti e due: potrebbe essere l’ultima volta, questa qui. Ma piango e rido, dentro. Quella coppa meglio se ce la facciamo fuori qui, con qualcuno di quelli giusti; ma se no ce la faremo fuori lassù.
L’Ettore in tempi di Covid, di sofferenze malsubite e di agognate futilità che dominano il discorso pubblico (e privato) prevalente, ci fa vedere che cosa ci strappa dal nulla e ci fa essere uomini. L’Ettore è la coscienza della nostra vita in quanto fatta per l’eterno. Per lui è abbattuto il muro. Il vissuto di cui è grato non è un passato: è il Destino nel suo incessante accadere. È la vita nel suo realizzarsi e compiersi.
Così che anche la coppa piacentina non ha più data di scadenza.