La sua vita era cambiata quel giorno del 1977 in cui le avevano chiesto di voltarsi: Pinin Brambilla (1925-2020), scomparsa pochi giorni fa, stava restaurando la grande Crocifissione dipinta da Montorfano nel refettorio di Santa Maria delle Grazie a Milano. Voltarsi significava rivolgersi al Cenacolo, il capolavoro immenso e disperatamente in bilico di Leonardo. La proposta era quella di cambiare cantiere. Di passare a quell’altra parete.
Il primo impatto fu drammatico, un vero spavento. “Non riuscivo a capire la materia, era un ammasso di grumi, disseminata di piccole zone chiare là dove era caduta la superficie dipinta”, ha scritto nel suo libro che racconta i vent’anni passati a misurarsi con Leonardo (tanto è durato il cantiere del restauro). Passò parecchio tempo prima che lei, restauratrice con enorme esperienza alle spalle, riuscisse a raccapezzarsi. Accade un giorno, quasi per caso. Alle prese con la lunetta centrale, Pinin Brambilla scopre una titubanza del maestro nella resa di uno scudo con il tracciato di un biscione. È come l’inizio di una confidenza, di una progressiva sintonia destinata a riservare tante sorprese. “Osservandolo e studiandolo con attenzione mi sentii piano piano invadere da un senso di calma: cominciavo a costruire una serie di ragionamenti, riuscivo a riordinare mentalmente i tanti dati: mettere in fila le domande e capire come interrogare la parete mi sembrarono un buon punto di partenza”.
Quella calma trovata è il segreto che le ha permesso di lottare per 22 anni con quella meravigliosa reliquia dipinta, sapendo lucidamente come affrontarla, millimetro per millimetro, prendendosi cura di ogni granello di colore sopravvissuto. Quando la intervistai per l’uscita del libro e le chiesi ragione di quella calma, lei mi disse che forse il segreto era nel suo essere donna. “Non saprei dire se un uomo avrebbe potuto fare altrettanto”, mi disse. “Il Padre eterno ha dato a tutti noi delle doti, chi bellezza, chi intelligenza, chi abilità manuale. A me ha dato una certa sensibilità, per cui quando vedo un quadro, immediatamente riesco a valutare e a vedere come potrebbe venire fuori il restauro… È una sensibilità che fa sentire l’opera. Un restauratore non può confidare solo su doti teoriche o meccaniche. Il femminile probabilmente aiuta in questa dote”.
Da donna però resse in modo imperioso la tensione delle mille polemiche, delle invidie, dei media che volevano sapere più di quel che si poteva dire. Con ironia raccontava che i ponteggi si erano trasformati in un vero red carpet frequentato da tutto il jet set internazionale: arrivavano politici, attori, principi e arrivò anche la regina Elisabetta. Lei riusciva a gestire perfettamente la situazione, senza perdere il filo di quel delicatissimo dialogo con il capolavoro di Leonardo. Lo trattava non come una cosa pur meravigliosa, ma come una vera “creatura”. “Era come una creatura che avesse sperimentato tutte le malattie possibili”, mi aveva raccontato in occasione di quell’intervista. “Una creatura che però alla fine non cade mai. Non cadde neanche quando le bombe del 1943 fecero terra bruciata tutt’attorno e il suo muro, sganciato dalle strutture, fu l’unico a restare in piedi. Il restauratore deve fare i conti con questo doppio volto del destino. La fragilità da una parte, e dall’altra un’irriducibile resistenza”.
La sua arma l’occhio, come scrisse Giovanni Testori, testimone diretto sul grande cantiere del Cenacolo: “L’occhio acutissimo, trepido e intrepido, lucido e innamorato di Pinin Brambilla”. Ma la sua arma erano anche le mani, agili, nervose, dall’aspetto quasi sensitivo. Tanto che sono diventate a loro volta oggetto di una bellissima opera: il video che i Masbedo le dedicarono, filmando solo loro, le sue mani. Le sole mani capaci di far risorgere Leonardo.