Un convegno, naturalmente a distanza, dell’associazione Merita e dell’Università Vanvitelli di Napoli sul Sud che si vorrebbe a settant’anni dalla nascita della Cassa del Mezzogiorno ha reso più chiari i motivi per i quali oggi si arranca più di ieri nel tenere unito il Paese nonostante i buoni propositi generalmente dichiarati.
Rocco e Pescatore, i primi due presidenti dell’istituzione, erano di specchiata onestà e rara capacità; Campilli e Pastore, i ministri che hanno promosso e accompagnato l’evoluzione dell’ente, erano personalmente disinteressati e attenti al bene comune; il personale era competente; gli esecutori privati, di qualità; si eccelleva nella ricerca e si aveva attenzione al capitale umano; c’era un forte senso della missione pubblica.
Ad ascoltare i relatori – tutti ampiamente titolati a parlare dell’argomento e con larghe esperienze politiche o amministrative alle spalle -, l’epoca della rinascita italiana dopo la Seconda guerra mondiale, quando in pochi anni siamo passati a essere da un ricettacolo di macerie alla settima potenza industriale del mondo, non è ripetibile perché non ci sono le condizioni morali e materiali per eguagliare quell’epopea.
Non si tratta di gettare la croce su questo o quel personaggio di oggi, ma di considerare il clima complessivo che si respirava quando a governare lo Stivale c’era De Gasperi assistito da giganti come Einaudi e Menichella e l’aria che tira oggi in un momento altrettanto cruciale per il futuro della nazione, delle sue famiglie, delle imprese e delle tanto celebrate nuove generazioni.
Senza dover spendere tante parole, allora c’erano visione, coraggio e una coesione – un’unità d’intenti – che oggi è inversamente proporzionale all’enfasi che si mette nel richiamarla. Soprattutto, c’era una direzione chiara di dove si volesse andare e le regole che sovrintendevano all’azione di ciascuno e di tutti erano chiare e comprensibili. Si manifestava quell’invidiabile condizione per la quale era possibile passare alle parole ai fatti.
Il tempo, poi, non era considerato quella variabile indipendente che ha preso prepotentemente il sopravvento negli anni a venire. C’era la tendenza a rispettare le scadenze e, se possibile, ad anticiparle grazie a riconosciute competenze distribuite lungo tutta la filiera di chi aveva l’onere e l’onore di realizzare un’opera o comunque di portare a termine il compito ricevuto.
A modo nostro eravamo competitivi e ancora capaci di sopportare sacrifici ben sapendo che il bene individuale sarebbe stato di vantaggio alla collettività, e viceversa, in un gioco a somma positiva. Poi qualcosa si è rotto. Concetti come preparazione, imparzialità e responsabilità – che si tengono per mano – hanno perso di vigore sostituiti da altri con significato esattamente opposto.
Non si può dire che i primi siano completamente scomparsi e che i secondi abbiano occupato tutta la scena, ma è innegabile che gli ultimi abbiano cominciato a prevalere conferendo al costume della società quella caratteristica di rassegnata sfiducia che oggi la pervade. E che in molti casi sfocia in rassegnazione, nella convinzione che al di là delle buone intenzioni non si possa andare.
Così una pesante e noiosa sovrastruttura fatta di leggi illeggibili, regolamenti e cavilli – congegnata per paralizzare l’impegno e l’ingegno piuttosto che favorirli – si è impossessata delle nostre vite e delle nostre relazioni riducendoci a piccoli e grandi burocrati più preoccupati di non farci cogliere in fallo che di cogliere l’obiettivo.