Dopo la firma dell’accordo tra Unione europea e Regno Unito con cui si è evitato il caos è lecito chiedersi con che prospettiva occorra leggere gli scenari che si aprono. Si è detto che l’accordo firmato due giorni fa mette fine all’incertezza degli ultimi anni dopo un periodo lunghissimo in cui si è speculato su quale accordo sarebbe stato firmato. Oggi l’accordo è noto e tutti sono in grado, più o meno, di leggere il quadro dei rapporti tra l’Unione e il Regno Unito. Ci sono sicuramente alcuni temi lasciati in una “fase di transizione”; pensiamo, per esempio, ai servizi finanziari, dove il regime provvisorio rimane anche se in un contesto in cui sembra impossibile ipotizzare che qualcuno voglia veramente rompere il rapporto con la principale piazza finanziaria del continente. Il risultato finale però è stato raggiunto e si apre quindi una nuova fase. Rispetto a questo scenario quello che conta è appunto la prospettiva.
La prospettiva è senza dubbio quella di una competizione tra il Regno Unito e l’Unione che a questo punto sono due aree rivali. La questione scozzese così come quella della ratifica necessaria al livello dei singoli Paesi membri saranno solo le primissime avvisaglie di una questione più ampia. Da questa parte della Manica siamo tutti vittima di una propaganda che da mesi ci bombarda con messaggi univoci: la Gran Bretagna si pentirà amaramente della scelta fatta e comunque il “sovranismo” è una scelta fallimentare anche dal punto di vista economico. Questa è la convinzione degli “europeisti”.
Per darsi una rinfrescata, rispetto alla propaganda martellante, basta aprire il quotidiano finanziario di New York. In un editoriale del Wall Street Journal si poteva leggere, tra le altre cose, anche questo: “La grande occasione è per l’Unione europea di imparare che è possibile commerciare liberamente e con successo senza l’ossessione per la convergenza regolatoria”. Non solo, “questo nuovo approccio renderebbe più semplice per l’Unione europea negoziare altri accordi commerciali nel futuro e in particolare con gli Stati Uniti”. Più semplice, nella testa di chi ha scritto l’editoriale, perché l’Unione ha “imparato” dall’accordo con la Gran Bretagna. È l’Unione che ha imparato la lezione e non il contrario.
In sostanza dall’altra parte dell’Atlantico si legge l’accordo firmato ieri come la prova che non occorre piegarsi alle richieste dell’Unione europea per avere accordi commerciali. L’Ue ha un partner appena fuori dai propri confini che ha imposto un cambio di paradigma. Gli Stati Uniti, comprensibilmente, si sentono più forti nei confronti dell’Unione perché la Gran Bretagna ha ottenuto non solo un accordo più che accettabile, ma la possibilità di continuare a mettere sotto pressione l’Unione.
Pensiamo solo alla possibilità in cui il Regno Unito riesca a negoziare un accordo con il più grande importatore globale, gli Stati Uniti, migliore di quello che firmerà l’Unione europea che pure sarebbe più grande. Pensiamo, in questa eventualità, alle rimostranze sia a livello di Stati membri che a livello dei settori industriali. Gli accordi commerciali sono necessariamente il frutto di compromessi in cui gli Stati scelgono che settori e che regioni sacrificare e quali invece tutelare a tutti i costi. Una società portoghese o polacca o italiana che ha un concorrente in Inghilterra trattato meglio dagli Stati Uniti non sarà particolarmente contenta. Se il Regno Unito in quanto tale, fuori dall’Unione, riuscisse ad aprire rapporti economici e politici migliori di quelli dell’Unione con le altre macro aree globali sarà molto difficile non solo evitare frizioni e malcontenti dentro l’Unione ma anche alimentare la narrazione per cui non c’è futuro al di fuori dell’Europa. L’uscita della Gran Bretagna potrebbe coincidere non con la fine dei sovranismi, che si devono arrendere all’evidenza del fallimento economico inglese, ma la loro grande rivincita se nella competizione che si apre il Regno Unito dovesse fare meglio dell’Unione.
Il “sovranismo” inglese dopo tutto oggi ha la faccia di Boris Johnson, figlio di un funzionario della Banca mondiale e della Commissione europea, “uscito” da Eaton e da Oxford. Non esattamente il curriculum di un politico “anti-sistema” o “anti-establishment”, in questo caso inglese.