Santo Stefano e la fatica della croce

Oggi a tradizione della Chiesa ha voluto ricordare Santo Stefano e la prima morte avvenuta per il nome di Cristo. Una morte che preannuncia la vita definitiva

Non è che nei primi secoli del cristianesimo il Natale avesse tutto questo grande successo. Certo, l’Epifania godeva di prestigio e di interesse teologico molto antico, ma non rappresentava neppure lontanamente quell’avvenimento sociale che, a partire dalla fine del XIX secolo, dalla Gran Bretagna anglicana si sarebbe esteso a tutto il mondo.

Il punto è che la nascita di Cristo era secondaria nella fede della Grande Chiesa delle origini. Ciò che era decisivo era che un uomo aveva cambiato la vita di un gruppo sparuto di ebrei nella Palestina del I secolo. Il cambiamento introdotto da quell’uomo non si era collocato a livello di dottrina o di morale sociale, non era neppure una novità di sentimento o di indirizzo politico: Egli aveva iniziato in quegli uomini e in quelle donne una nuova coscienza di se stessi.

Gesù di Nazareth non risolveva i problemi del mondo, non impediva le guerre e non arginava le pandemie, non estirpava la fame e non fermava neanche l’avanzata del dolore. La Sua Presenza, invece, dava consistenza all’io, restituiva umanità e agibilità psicologica, morale e spirituale a tutti coloro che Lo incontravano e che passavano dalla simpatia dell’inizio alla sequela del quotidiano.

Egli era portatore di un’onnipotenza che non era sinonimo di possesso, ma di libertà: era così onnipotente che – a differenza di tutti i potenti – sapeva fermarsi e lasciare spazio alla libertà dell’altro, al cammino e alla strada dell’altro. Non faceva prediche all’adultera, ma la perdonava, congedandola con un’accennata raccomandazione. Non rintuzzava il corrotto Zaccheo con l’indignazione delle persone perbene, ma andava a mangiare a casa sua e lasciava alla sua intelligenza il da farsi. Gesù Cristo si poneva come un avvenimento affettivo capace di calamitare tutta la ragione e l’affezione di chi Gli permetteva di entrare nella propria vita.

La notizia, però, in quello scorcio di mondo durante quello scorcio di tempo non era neppure questa: tutta la Sua forza, tutta la Sua personalità, non Gli aveva infatti impedito di essere arrestato dalle autorità, processato e condannato a morte. Quell’uomo era morto come tutti, la Sua imponenza non Lo aveva salvato da uno dei più vergognosi dei destini possibili.

Eppure la storia non era finita lì: la notizia del cristianesimo è che la morte non Lo ha fermato, è che la morte non è stata l’ultima parola della Sua vita. Gesù di Nazareth è risorto: dopo i tristi giorni della Sua Pasqua Egli ha continuato a chiamare a sé uomini e donne di ogni lingua, popolo e nazione, perseverando nel miracolo di ricreare in loro un’identità nuova. Poi, trascorsi quaranta giorni dalla Sua Resurrezione, si è ritirato dallo sguardo sensibile dei Suoi discepoli, andando ad abitare in modo definitivo la profondità delle cose.

Ma, e qui nasce il senso del Natale, essi – i discepoli – cominciarono allora a chiedersi com’era possibile che quell’uomo fosse asceso alle profondità della vita se prima non vi fosse disceso. Come era possibile che Egli tornasse al Padre se prima dal Padre non fosse giunto a loro? Il Natale diventava, anno dopo anno, secolo dopo secolo, l’estrema conseguenza di ciò che avevano vissuto: se a Dio Egli era tornato, da Dio era venuto.

Così, dopo molti anni, i primi cristiani compresero che quello che era successo loro, quell’incontro così significativo, non era iniziato in un certo pomeriggio di primavera dell’anno 27, ma era cominciato prima, in una notte oscura, in un luogo non conosciuto alle grandi cronache, secondo una storia strana che – però – raccontava già tutto quello che sarebbe poi successo: sul legno della mangiatoia la madre lo aveva riposto perché dal legno della croce lo avrebbe deposto, avvolto in fasce lo avevano trovato perché molti anni dopo in quelle fasce – nel sepolcro – non lo avrebbero più rinvenuto, dagli Angeli era stato annunciato perché un Angelo avrebbe raccontato alle donne del gran fatto occorso, di notte era nato perché in una notte Egli sarebbe risorto, ai pastori – senza credito e dignità sociale – era stata offerta la notizia della Sua nascita perché alle donne – senza credito e dignità sociale – sarebbe stata offerta la notizia della Sua vittoria.

A sigillo di tutto ciò, la Tradizione volle ricordare, il giorno dopo la Sua nascita, la prima morte avvenuta per il Suo nome, con quel martirio di Santo Stefano che preannunziava una morte capace di annunciare la vita, proprio come a Betlemme quella vita che era nata aveva profetizzato un’altra Vita.

Sono strani questi giorni di Natale. Strani non perché raccontino di un bimbo che nasce, ma perché annunciano – dentro la gioia della festa – che la vita rinasce solo se non si sottrae al morire, che non c’è morte che non sia preludio di un nuovo inizio, che non c’è tramonto che non attenda alba e notte che non sia promessa di un nuovo giorno.

È Natale, ma i cristiani sanno – come sapeva Santo Stefano – che la speranza viene dalla Pasqua, che quel che oggi comincia dovrà passare per la fatica della croce. Che questi giorni di distanza e di dolore che tutti viviamo prima o poi finiranno, ma dopo una strada e un cammino che non è in nostro possesso, che noi non conosciamo, ma che già brilla – come promessa certa – al chiarore di queste prime giornate che si allungano dopo il solstizio di inverno, dopo il tempo dell’attesa, dopo il dono del Natale.

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