Caro direttore,
mi è capitato di conoscere Giorgio Galli verso la fine degli anni 90. Io ero ancora all’inizio del mio cammino di giornalista economico, lui era da decenni storico e politologo di riconosciuta fama internazionale. È stato un incontro rimasto unico nella mia memoria professionale, anche se poi non seguito da molti altri. So però di essere in folta compagnia fra i giornalisti che tengono nel loro diario almeno un incontro personale “unico” con Galli; e che nella sua scomparsa sentono oggi la perdita di una voce per molti versi unica. La voce di uno scienziato (politico) che non solo “scriveva sui giornali” o “parlava con i giornalisti”, ma è stato lui stesso un grande “uomo di giornali” e ha aiutato i giornalisti a fare il loro mestiere, a impararlo.
Quel giorno ero convinto di poter porre io domande d’attualità a Galli: invece fu lui a riempire quell’ora con le sue. Il tema era la crescente interdipendenza finanziaria fra Stati attraverso gli indebitamenti pubblici. “Quanti bond francesi sono in mano a banche o fondi americani? È vero che molti Btp sono in Cina? Da chi sono controllate le agenzie di rating? Che potere di condizionamento ha un grande investitore estero su un ministro delle finanze?”. E così via: tutti quesiti precisi, pertinenti, soprattutto curiosi. E questo nel pieno della globalizzazione ruggente, un decennio abbondante prima della crisi dello spread italiano.
Milano era uno degli snodi di una dinamica planetaria che sembrava condurre verso un’irreversibile “fine della storia”. Galli – sempre scevro da preconcetti (meno che mai ideologici) – non rinunciava a interrogarsi da scienziato della politica, basato nella sua Milano: e il suo approccio aveva il ritmo e la passione del giornalista. Tanto che il giornalista di quel giorno, il sottoscritto, si ritrovò sempre più in difficoltà a seguire un serrato flusso di questioni. Ricordo anzi che cercai di difendermi con un argomento classico: è il giornalista – di norma – a chiedere ed è l’esperto a rispondere. Ma il punto era esattamente quello.
Galli – già allora titolare di una sterminata bibliografia – non si considerava affatto un proprietario-dispensatore di sapere e sentiva invece il suo lavoro di intellettuale essenzialmente come ricerca e domanda. Contavano i fatti che mutavano e le questioni nuove che suscitavano. È una sfida comune – per i giornalisti come per gli accademici – procedere per domande giuste in tempo reale: allorché spesso porre le domande giuste nel tempo e nel modo giusto è già una prima risposta. In questo Galli – laico riformista ambrosiano – è stato sempre un maestro civile: molto più che il pur celebre teorico del “bipartitismo imperfetto”, che rimane il modello interpretativo più acuto della Prima Repubblica.
Le rubriche di Galli su Panorama – e poi su molte altre testate – hanno insegnato a giornalisti e lettori italiani un racconto della politica che prima non c’era e che ora in parte non c’è più. C’era più della cronaca politica, ma quella c’era tutta: era la base imprescindibile. C’era anche tutta la scienza politica, Galli la teneva al suo posto, facendone l’uso più efficace. Lo stesso vale per i libri di “investigazione storica” sull’Italia degli anni di piombo piuttosto che sul “mistero dei misteri” del dopoguerra italiano: l’ascesa e la tragica fine del fondatore dell’Eni Enrico Mattei. Sono volumi che a molti giornalisti sarebbe piaciuto scrivere, ma a scriverli – a scriverli così – è stato Galli: tutti testi da tenere sempre a portata di mano, da rileggere. E non c’era iato alcuno con le sue basilari monografie sui partiti politici italiani, con gli studi di politica comparata, con l’esplorazione – soprattutto nell’ultima fase del suo percorso culturale – delle relazioni fra politica, magia ed esoterismo. Tutto mancherà a molti.