Negli anni Settanta del secolo scorso New York era una città brutta sporca e pericolosa. A turisti (pochi) e residenti si raccomandava di non circolare per le vie oltre una certa ora della sera e venivano prodotti film sulla violenza delle bande giovanili che si contendevano il controllo del territorio.
Poi accadde che sulla poltrona di sindaco si accomodassero di fila quattro sindaci formidabili come Ed Koch, David Dinkins (primo e ultimo di colore), Rudolph Giuliani e Michael Bloomberg che ha lasciato il posto al controverso italo-tedesco-americano Bill de Blasio ultimo della serie e anello debole della catena.
Il riscatto della metropoli avvenne sulla base di felici intuizioni, perseguite con buon senso e pragmatismo: il recupero e la valorizzazione degli spazi urbani degradati e delle periferie, la lotta al crimine in ogni sua forma secondo il principio della tolleranza zero, l’incoraggiamento agli investimenti privati.
Il presupposto, naturalmente, era assicurarsi un’amministrazione pubblica efficiente con la capacità di mettere l’uomo giusto al posto giusto perché alle parole potessero seguire i fatti. Oggi New York è la meta più ricercata al mondo con oltre 50 milioni di visitatori l’anno per divertimento o per affari.
Certo, la fortuna (che non arriva quasi mai per caso) ha voluto che lo Stato omonimo che contiene la città simboleggiata dalla mela fosse governata per ben tre mandati da un fuoriclasse come Mario Cuomo (originario di Tramonti in provincia di Salerno) il cui testimone è stato raccolto dal figlio Andrew.
Dopo l’esperienza non esaltante di de Blasio, caratterizzata da venature populiste che hanno creato molte attese nelle classi povere e restituito altrettante delusioni, New York si prepara adesso a nuove elezioni (si terranno il prossimo novembre) con le precauzioni e le attenzioni che l’appuntamento merita.
Sul filo del medesimo parallelo, il 41esimo, anche Napoli si accinge a tornare alle urne dopo dieci anni di gestione velleitaria e sconclusionata che lascia irrisolti sul terreno tutti i problemi ereditati e ne aggiunge di nuovi rendendo il compito di chi verrà scelto tra i più complicati che si possano immaginare.
Dalla rinascita di Bagnoli al recupero dell’area industriale, dal decoro urbano alla manutenzione delle strade, dalla gestione degli immobili alla sistemazione del lungomare (liberato dalle auto e ingolfato di ambulanti abusivi), Luigi de Magistris ha infilato un fallimento dopo l’altro generando un gigantesco buco nel bilancio.
Antesignano di una cultura fanciullescamente rivoluzionaria, l’unica promessa che ha mantenuto è stata quella di “scassare” tutto. E tutta scassata (rotta, distrutta, umiliata) abbandona la città su cui ha maramaldeggiato grazie a una maggioranza variata cento volte pur di non mollare la presa.
Certo, se è arrivato a quel posto qualcuno ce lo avrà mandato. E i napoletani hanno infatti le loro brave colpe se si sono fatti incantare da un eloquio tanto fluido quando privo di contenuti come si può apprezzare dalle numerose comparsate in tv che il sindaco con la bandana preferisce ai doveri del Municipio.
Prima di lui Napoli ha conosciuto dieci anni di Rosa Russo Iervolino (che ha rimarcato come l’incarico fosse maledettamente più difficile di quello di ministro dell’Interno) e nove anni di Antonio Bassolino salito sullo scranno più alto in piena Tangentopoli dopo un duello all’ultimo sangue con Alessandra Mussolini.
Le scelte fatte sono tutte figlie di calcoli opportunistici e suggestioni popolari: la retorica degli onesti contro i disonesti, l’acquiescenza di un ceto imprenditoriale desideroso di ottenere favori a buon mercato, l’ambizione di personaggi in cerca di autore che hanno usato la politica per prendersi un passaggio.
Tutto si è tenuto in un gioco al ribasso che ha prodotto i suoi effetti cancellando anche quel poco di buono che si è fatto (il primo Bassolino ha avuto il merito di restituire un po’ di orgoglio sotto il manto di un pretenzioso Rinascimento più celebrato dai media, in verità, che conosciuto nella pratica).
Sarebbe lungo e noioso ripercorrere le tappe del cammino che ha trascinato l’antica capitale nel pantano in cui si trova. Senza voler negare gli sforzi generosi che pure ci sono stati – e qualche realizzazione meritevole come la metropolitana – la sfilza degli errori è stata di gran lunga superiore.
Ora si affollano sulla scena molti, troppi, candidati: alcuni fai da te, altri sospinti da chi vorrebbe lasciassero libero il posto che attualmente occupano, i restanti frutto di fragili compromessi tra quello che resta dei partiti. Nessuno ancora che presenti un progetto, che incarni una missione, che mostri una visione.