Caro direttore,
dopo un lungo silenzio, la senatrice a vita Liliana Segre è rientrata nel dibattito pubblico con due interventi di particolare momento e incisività. Sulla Stampa ha perorato l’obbligo morale di adesione alla campagna di vaccinazione-Covid, dovere civile che ogni italiano dovrebbe sentire in chiave di bene comune (è stato lo stesso appello-monito al centro del discorso di fine anno del presidente della Repubblica Sergio Mattarella). Su Repubblica, Segre ha invece collegato l’emergenza pandemica a un più antico male italiano: il sovraffollamento delle carceri, all’interno delle quali il virus colpisce oggi non meno violentemente che nelle residenze per anziani.
È suonata implicita – ma non certo debole – una sollecitazione alle forze politiche a uscire da un evidente stallo nel governo della crisi italiana. Se Segre, ancora una volta, è parsa fare eco autorevole alle preoccupazioni del Quirinale, il destinatario concreto di ogni alto stimolo istituzionale a “fare” è sempre l’esecutivo guidato da Giuseppe Conte: cui la senatrice, nel settembre 2019, ha voluto accordare una fiducia personale, rimarcata da un importante intervento parlamentare.
La voce della senatrice – divenuta oggi una della più significative al mondo nella testimonianza della memoria della Shoah – è sembrata richiamare dal canto suo alcune lezioni che in questa fase storica di assoluta eccezionalità stanno giungendo dallo stato di Israele: anche all’Europa e quindi all’Italia.
La prima e principale è alle cronache in queste ore e riguarda l’avvio cruciale della campagna di vaccinazione. In Israele è iniziata il 20 dicembre e da allora il siero è già stato inoculato a un milione di persone: l’11% della popolazione. Come ha sottolineato proprio Repubblica in un reportage, le leve di successo dell’operazione sono state tre. C’è stato anzitutto l’impegno puntuale e deciso del Governo nell’acquisto anticipato di 22 milioni di dosi di vaccino da Pfizer, Moderna e AstraZeneca, privilegiando nelle trattative la disponibilità in tempo reale e senza badare a costi e compatibilità di bilancio. Alla resilienza attiva del Paese – colpito in misura non marginale dal Covid – ha però contribuito in misura forte il radicamento civile della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica: quella che ha fatto della “Tel Aviv Valley” un hub internazionale non solo nel tech ma anche nelle bioscienze. Il blitz non sarebbe stato possibile, infine, senza uno sforzo logistico congiunto e sincronizzato di sanità pubblica e privata, forze armate e Magen David Adon (la Croce rossa israeliana).
Non pare fuori luogo notare in quale contesto politico la governance e la società israeliane abbiano prodotto questo risultato. il Paese ha tenuto elezioni generali lo scorso 2 marzo, terza consultazione in meno di un anno. Dal voto – anche per la successiva ventata del Covid – è uscito un Governo di unità nazionale. Il Likud di centrodestra del premier Bibi Netanyahu – rimasto primo partito israeliano – ha trovato un accordo con Blu e Bianco dell’ex generale laburista Benny Gantz: respinto per tre volte nel tentativo di superare il lungo e contrastato “regno” di Netanyahu. Da una nuova grande coalizione centrista sono usciti alcuni partiti della destra religiosa e hanno preferito tenersi fuori alcune forze della sinistra. L’esperimento politico è durato meno di un anno e si è esaurito prima della fine del 2020.
Nelle stesse ore in cui l’esecutivo di unità nazionale ha dato prova di grande efficienza sul terreno dell’emergenza sanitaria, il parlamento di Gerusalemme ha preso atto della dissoluzione della maggioranza di governo – formalmente spaccata sul budget 2021 – e indetto una quarta snap election in meno di due anni. L’uscita di scena di Donald Trump ha inevitabilmente rimesso in discussione il piano “Vision for Peace” per i territori palestinesi, presentato dalla Casa Bianca lo scorso gennaio. Il disegno ha raccolto gran parte delle istanze di Netanyahu – tendenzialmente annessioniste dei territori della Cisgiordania – ed è stato per questo respinto dall’Autorità nazionale palestinese. Il passaggio è stato tuttavia alla base di immediate svolte diplomatiche in Medio Oriente già nel 2020: primi fra tutti i cosiddetti “Accordi di Abramo”, cioè la normalizzazione delle relazioni fra Gerusalemme, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein (successivamente anche il Marocco). L’avvento di Joe Biden alla presidenza sembra tuttavia porre condizioni almeno potenziali per una revisione di quella road map, caratterizzata da un rassemblement geopolitico fra Usa, Israele, Arabia Saudita e altri paesi mediorientali avversari dell’Iran anti-occidentale e dell’islam più radicale.
Non può aver sorpreso che l’esito del serrato confronto interno agli Usa sul trumpismo abbia subito riacceso lo scontro politico in Israele, dove è evidente che già nel 2021 saranno in gioco tutte le grandi opzioni sul futuro del Paese: macro-scelte non solo geopolitiche, ma anche di modello interno di sviluppo socioeconomico. In una democrazia – Israele lo è dal 1948, lo stesso anno del varo della costituzione democratica in Italia – quando il Parlamento ne riconosce la necessità inevitabile, la parola torna al voto popolare, radice della sovranità e di ogni legittimazione. E non da ultimo: una democrazia autentica ha fra le sue priorità fondative quella di mostrarsi più forte di ogni eccezionale fattore di pressione esterna, come a esempio il Covid.
Israele sta usando al meglio e al massimo tutti gli strumenti disponibili. Ed è prevedibile che entro il 23 marzo – data indicativa per il prossimo voto politico – i cittadini elettori saranno per larga parte vaccinati: forse per intero. Liberi per questo di far funzionare regolarmente la loro democrazia per il bene comune del loro Paese.
Ha ragione la senatrice Segre: prima tutti gli italiani saranno vaccinati – si vorranno vaccinare e saranno messi dal loro Governo nella condizione di farlo, come sta accadendo in Israele – e meglio sarà per loro e per il loro Paese.