È arrivato l’inverno. La scuola vuota e fredda, la viviamo indossando mascherine e cappotti. Capita certi giorni, salendo al piano di sopra, nella solitudine di aule deserte e ordinate, gelide e perfette, con banchi e lavagne che nessuno usa, di avvertire una nostalgia dolorosa di volti e voci, di odori e rumori. Dove sono finiti i nostri ragazzi? Sì, mi dico, questo posto senza di loro non ha senso. Eppure ci sono. Noi siamo qui perché loro ci sono. Non come gli ologrammi degli stadi, come un finto pubblico che segue le grida degli allenatori divenute intellegibili ai tifosi casalinghi sui divani. Ci sono, esseri umani in carne ed ossa. Ma perché continuano a dirci che la scuola deve riaprire; quando mai ha chiuso? Perché se fosse “chiusa” vuol dire che le facce, le menti e i cuori dei nostri ragazzi sono finiti in un vuoto iperuranio e non sono una indubitabile presenza.
Ci sono. Solo che non sono qui.
E non mi meraviglia che il ministro dell’Istruzione combatta perché possano tornare “presenti” in questi spazi, nei loro spazi. Nelle aule che un Paese normale attrezza per fare la scuola, per diritto e per dovere. E per necessità di sopravvivenza a sé stesso. Mi meraviglia, invece, che questo Paese civilizzato pensi alla loro presenza in classe come ai cartoni del latte di un supermercato che si possono spostare a piacimento sugli scaffali. Pensi a loro solo come le tessere di un puzzle dentro una giornata fatta di gente che si muove e va a lavorare. Come pezzi di una organizzazione.
Qui sta il punto. Quello che ci tiene in ansia continuamente. Arranchiamo dietro alchemici orari, facciamo i salti mortali per cambiare di continuo ingressi e uscite e percorsi e nessuno si preoccupa di ciò che importa ai ragazzi, davvero. Se riescono a studiare, se stanno imparando. Se si annoiano. Se è interessante la vita. Se la gioia è un sentimento che condividono anche dietro gli schermi. Ma tutti pontificano su quali competenze stanno perdendo. “Se i nostri ragazzi non hanno potuto beneficiare di una didattica in presenza nel corso di quest’anno, se hanno perduto una quantità di ore e di nozioni significative e di possibilità di relazioni, questo non significa affatto che siano di fronte all’irreparabile. Il lamento non ha mai fatto crescere nessuno” (Massimo Recalcati).
Coorti di esperti si riuniscono intorno a tavoli interminabili, ogni volta con protagonisti istituzionali diversi, e noi a rincorrere una didattica dignitosa dentro le prescrizioni. Ci guardiamo in faccia, certi giorni, nel freddo, e siamo spaesati. Povera gente di scuola. Massacrata da organizzazioni sempre diverse. Non è vero che hanno a cuore la scuola. Questo Paese continua a non avere idea di ciò che è veramente prioritario per la scuola. Cioè la didattica. Il fare scuola. Senza articolo. L’insegnare e l’apprendere di gente viva. Che non può stare dentro percentuali uguali per tutti. Sprecando un bene preziosissimo in questi tempi duri. Ce lo diciamo a ogni nuova call per riorganizzare “la ripresa”: quanto inutile tempo per tessere la tela di Penelope. Strappando energie e risorse che potremmo impegnare per rendere la nostra didattica, seppure massacrata dal virus, ancor più vantaggiosa. Eppure la scuola c’è, e continua, imperterrita, il suo lavoro. I collaboratori scolastici spolverano banchi nuovi di zecca, la palestra è piena di quelli usati che fa pena mettere fuori alle intemperie, gli insegnanti insegnano, gli studenti imparano. E crescono, in presenza e a distanza. E la scuola “c’è” perché ci sono i ragazzi. Che per noi sono una inequivocabile presenza.