Dall’inizio della pandemia, ogni giorno arriva sul telefonino un buon numero di vignette che cercano di alleggerire il clima plumbeo con l’arma dell’ironia. Ieri me ne è arrivata una che diceva: “Messaggio inviato oggi dal governo ai docenti delle superiori: ‘Vegliate, dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora’ (Matteo, 25, 13)”. Più che una battuta, mi è parsa una puntuale descrizione della politica nei confronti della scuola, e un’indicazione realistica ai dirigenti e ai docenti non solo delle scuole cattoliche. Il fatto è che oggi in Italia circa due milioni e mezzo di ragazzi, e le loro famiglie, non aspettano la fine del mondo a cui richiama il vangelo di Matteo (per quanto…) e nemmeno la venuta del Messia (per quanto…), ma una parola certa su quel che accadrà di loro nell’immediato futuro.
Da questa condizione di incertezza, o più esattamente di confusione, parte un articolo di Andrea Gavosto, comparso giovedì su Repubblica, che dall’osservatorio della Fondazione Agnelli evidenzia e depreca i continui tentennamenti e giochini fra Stato e Regioni, da cui finisce con l’emergere il giudizio che chi ci governa (governa?) abbia messo la scuola nell’ultimo banco, con o senza rotelle. È evidente che bisognava pensarci prima: ma le quattro parole più inutili della storia (“ve l’avevo detto”) ancora una volta non servono a niente, se non a sperare che venga attuata oggi una serie di misure che andavano invece attuate ieri, o l’altro ieri.
Certamente ogni occasione di affollamento può essere causa di diffusione del virus: ma è altrettanto vero che le scuole sono fra gli ambienti più sicuri, grazie agli investimenti e agli sforzi di dirigenti e insegnanti: distanziamento, orari modificati, recupero di spazi, integrazione con la didattica a distanza (Dad). Se le entrate e le uscite sono controllate dagli insegnanti, le occasioni di contagio restano i mezzi pubblici, e dal momento che i ragazzi si spostano anche per altri motivi oltre che per andare a scuola, il rischio è tutt’al più diminuito, non certo eliminato. Giustamente, Gavosto sospetta che all’origine dei rinvii ci sia piuttosto la consapevolezza di non aver creato le condizioni esterne per garantire un rientro in maggiore, se non completa, sicurezza.
Le scuole stesse, se fosse stata loro riconosciuta una maggiore autonomia, avrebbero potuto prendere provvedimenti più efficaci, ma il modello centralizzato monopolistico prevede la generalizzazione dell’inefficacia. Non riesco per esempio a capire, probabilmente perché nei miei anni giovanili non ho potuto fruire della Dad, perché non si sia potuto differenziare la ripartenza a seconda delle zone, sia tenendo conto della diffusione del contagio, sia delle caratteristiche del territorio: altro è raggiungere una scuola nel centro di Milano o di Roma, altro è raggiungerla a Oderzo o a Martina Franca; e nemmeno perché si sia chiuso tutto indiscriminatamente, anche strutture facilmente raggiungibili e che garantivano un livello elevato di sicurezza (mi viene in mente, perché l’ho visitata recentemente, la razionale biblioteca di Brugherio, che potrebbe tranquillamente ospitare un buon numero di studenti in un contesto meno alienante del soggiorno di casa).
I danni che questa situazione ha causato, in termini di preparazione scadente, ma anche di mancanza di relazioni con gli amici e con gli adulti, sono già ora elevati, rischiano di aggravarsi e potranno avere pesanti conseguenze sul futuro dei singoli ragazzi e della società: è di poca consolazione il fatto che oltre all’Italia altri Paesi si trovino nella stessa situazione, e che non si sia trovata una soluzione inattaccabile. Gavosto propone però come “unica risposta” l’allungamento dell’anno scolastico nei mesi estivi, e qui mi nascono molte perplessità.
A parte l’opposizione, che darei per certa, degli insegnanti e in generale del personale della scuola, oltre che del già collassato settore turistico che vedrebbe svanire molte delle speranze di una ripresa estiva, io vedo altre obiezioni a questa proposta. Anzitutto, e purtroppo, non abbiamo nessuna garanzia che fra sei mesi saremo fuori da questa situazione: è probabile che le cose vadano meglio, ma quanto meglio? In secondo luogo, è vero che i ragazzi desiderano tornare a scuola, ma non al punto da saltare le vacanze; infine, e soprattutto, allungare il tempo scuola per recuperare competenze non significa solo restarci più a lungo.
Dal momento che la didattica a distanza, che in alcune situazioni è stata piuttosto una non-didattica, ha danneggiato i più deboli, accrescendo il rischio di abbandoni, nel ritorno in presenza è necessaria una progettazione individualizzata, a partire da una individuazione dei bisogni specifici e con un obiettivo formativo: si deve cioè indicare con chiarezza ai ragazzi quali sono le loro carenze, e dare loro le conoscenze fondamentali e soprattutto gli strumenti per acquisire quel che manca, e sicuramente non basterebbero alcune settimane in luglio e agosto per recuperare, visto che quasi certamente i bisogni sono molto differenziati. Nella scuola serve oggi più che mai un approccio metodologico che insegni ai ragazzi più penalizzati come studiare, e valorizzi quei tratti di personalità, come l’autostima e la motivazione, che possono tenerli a scuola.
Che fare? Come sempre, non esistono ricette: il sito Condorcet citato nell’articolo propone una diversa calendarizzazione dell’anno scolastico, in modo flessibile e differenziato, in cui il modello europeo non è la durata (compresa praticamente in tutti i Paesi fra 34 e 37 settimane) ma la distribuzione, con “vacanze estive più corte (quando il virus è meno aggressivo) e sospensioni dell’attività di alcuni giorni durante l’anno. Aiuterebbe ulteriormente far sì che il personale in servizio rimanga il più possibile nelle stesse classi anche per il prossimo anno scolastico, in modo da consentire una programmazione dei recuperi più distesa e che includa per lo meno anche i primi mesi del prossimo autunno”. Certamente la pandemia dovrebbe con forza richiamare alla mente degli educatori e dei decisori politici l’idea che non si programmano i singoli anni scolastici, ma i “cicli” di due o tre anni, con una progettazione che consente di accelerare o rallentare i tempi di raggiungimento degli obiettivi, resa impossibile dalla mobilità fuori controllo.
Le misure che mi parrebbero utili e su cui si potrebbe aprire una discussione sono abbastanza intuitive: maggiore autonomia alle singole scuole, tenendo conto della condizione del territorio, del livello di sicurezza calcolato in base a parametri affidabili, delle condizioni degli edifici e anche della distanza media da scuola; maggiore stabilità del corpo docente; programmazione sull’arco di un biennio/triennio, con i necessari collegamenti fra ordini di scuola per chi passa dalla secondaria di primo a quella di secondo grado; potenziamento del bilancio di competenza in entrata anche per le matricole, con una sistematizzazione dei corsi di livellamento che già fanno molti atenei; possibilità di differenziare occasioni di recupero per i ragazzi più svantaggiati, ma anche per chi ha carenze pesanti solo in alcune materie, spezzando l’unità del gruppo classe. E, infine, si dovrà pensare a un’integrazione con la didattica a distanza, che ne sfrutti al meglio le molte opportunità.
Ci piacerebbe tanto anche il passaggio dalle molte ipotesi confuse alle poche certezze: ma la triste prospettiva è che alle scuole e alle famiglie, direbbe Guareschi, resti solo l’obbedienza cieca, pronta e assoluta, accompagnata dall’inevitabile “contrordine compagni”…