Caro direttore,
può darsi che Donald Trump meriti l’etichetta di “gangster”, per come sta concludendo il suo mandato presidenziale. Certamente non può non colpire il fatto che chi criminalizza un presidente votato democraticamente per due volte da 70 milioni di americani, non abbia mai ritenuto di includere fra i politici “malavitosi” il paramount leader cinese Xi: Jinping che perseguita da anni uiguri e tibetani; bracca il patron di Alibaba, Jack Ma; incarcera i giovani studenti democratici di Hong Kong, minaccia Taiwan, manovra dalle retrovie gli esperimenti nucleari della Corea del Nord: Soprattutto: ostacola oggi ogni tentativo di indagine internazionale sulle origini della pandemia da Covid-19 e cerca invece di lucrarne con ogni mezzo in termini di neo-imperialismo geopolitico.
Può darsi che Trump ricordi Al Capone. Quel che è storicamente incontrovertibile è che il commercio di alcolici era il core business originario della famiglia Kennedy. Ed è storicamente accreditato che Joseph Kennedy – padre del presidente-icona del politically correct anti-trumpiano – abbia condotto quel ramo d’affari anche dentro il proibizionismo degli anni Venti del secolo scorso: l’epoca d’oro dei gangster veri. Nel 1929, quando Wall Street crollò trascinando gli Usa nella Grande Depressione, Kennedy Sr era il presidente del New York Stock Exchange. Ed era talmente ricco da poter emergere fra i primi finanziatori della campagna elettorale di Franklin Delano Roosevelt: che lo ricompensò con l’ambasciata Usa a Londra, incarico ambitissimo.
È argomento ormai accolto che anche la vittoria di JFK nel 1960 fu propiziata in modo decisivo da intese fra “Joe” Kennedy – discendente di immigrati irlandesi – e i boss della criminalità organizzata italo-americana di Chicago. È tuttora dibattuto il “giallo del ventesimo secolo”: l’assassinio di Dallas. Ma da quasi sei decenni è in crescita costante l’ipotesi che l’uccisione di JFK e quella successiva del fratello Robert possano aver rappresentato la punizione per gli “sgarri” di una famiglia che prima aveva cercato appoggi e protezioni fra i gangster, salvo poi tradirli. Né può essere dimenticato che fra i primi passi del presidente Kennedy – nel 1961, poche settimane dopo l’insediamento – ci fu un fallito tentativo di invasione di Cuba, da poco conquistata da Fidel Castro. Ufficialmente il “fiasco della Baia dei Porci” fu attribuito all’inesperienza delle milizie formate da esuli cubani. Il piano fu comunque progettato e finanziato della Cia, sotto la sorveglianza della Casa Bianca. Castro costituiva certamente una spina nel fianco politico-militare da eliminare al più presto: la drammatica crisi dei missili sovietici a Cuba arriverà subito l’anno dopo. Ma vi sono pochi dubbi che a premere per il ritorno dell’Avana sotto il controllo gringo, vi fossero anche le grandi gang: che gestivano da decenni l’isola caraibica come “cosa loro”, un “parco giochi” per ogni attività illegale a tiro d’aereo da Washington, New York e Chicago.